
03 Set 2025 The Smashing Machine: la dedica personale di Benny Safdie alla leggenda della UFC
Un viaggio tra gloria e fragilità dove il ring diventa specchio dell’anima.
Presentato in Concorso all’82ª Mostra del Cinema di Venezia, The Smashing Machine è il nuovo film scritto e diretto da Benny Safdie, alla sua prima prova da solista dopo aver firmato insieme al fratello Josh due titoli ormai di culto come Good Time e Diamanti grezzi. Questa volta il regista sceglie di raccontare la storia di Mark Kerr, interpretato da Dwayne “The Rock” Johnson, uno dei pionieri delle arti marziali miste e simbolo della nascente UFC, uomo capace di travolgere gli avversari sul ring e al tempo stesso di mostrare fuori da esso una fragilità profonda, segnata dalla dipendenza, dai conflitti interiori e da un amore tormentato con Dawn, portata in scena da Emily Blunt.
The Smashing Machine: un film che guarda oltre lo sport
Il film prende spunto dall’omonimo documentario del 2002 dedicato a Kerr, ma sceglie una via più intima, quasi contemplativa. Safdie non realizza un racconto sportivo fatto di trionfi e cadute, ma un ritratto umano che indaga cosa significhi vivere quando non puoi vincere sempre. Le lotte di Kerr contro la dipendenza da oppiacei, la difficoltà di vivere un rapporto sentimentale stabile con Dawn e la pressione costante della gloria sportiva diventano l’anima di una pellicola che preferisce sussurrare piuttosto che urlare.
Pur con alcuni limiti nello sviluppo dei personaggi secondari, come gli avversari sul ring o i compagni di palestra che restano sullo sfondo, The Smashing Machine è un’opera che restituisce la complessità di una figura contraddittoria e “universale.” Il film manca a tratti di potenza, con un ritmo che accelera troppo rapidamente il passaggio di Kerr da perfetto sconosciuto a icona delle arti marziali miste, bruciando momenti che avrebbero meritato sicuramente un maggiore approfondimento. Anche sul piano sonoro alcune scelte lasciano perplessi: il montaggio alterna suggestioni ambient a brani anni ‘80 che non sempre reggono con la forza delle immagini, creando una dissonanza che rischia di distrarre lo spettatore più che amplificare l’impatto emotivo.
The Smashing Machine: la trasformazione radicale di Dwayne Johnson

Dwayne Johnson sorprende con una metamorfosi che lo rende quasi irriconoscibile. Attraverso un lavoro fisico estenuante e l’uso di un trucco prostetico incisivo, abbandona definitivamente l’immagine dell’eroe invincibile per restituire la fragilità di un uomo incapace di tenere insieme la propria vita fuori dal ring. Al suo fianco Emily Blunt dà corpo a una Dawn intensa e credibile, divisa tra la devozione per l’uomo che ama e la fatica quotidiana di convivere con le sue cadute. Il resto del cast appare più defilato: Ryan Bader interpreta Mark Coleman, allenatore e amico di Kerr, ma la sua presenza resta sullo sfondo, ridotta a una figura di supporto più che a un personaggio realmente sviluppato.
Più che un film sportivo, The Smashing Machine diventa una riflessione sull’uomo dietro l’atleta, sul peso della vulnerabilità e sulla resa inevitabile che accompagna ogni campione quando la forza fisica non basta più. Non il consueto racconto di trionfi e sconfitte a cui il cinema sportivo ci ha abituato, ma un’opera che si avvicina idealmente a un titolo come The Wrestler di Darren Aronofsky, senza raggiungerne la stessa potenza drammatica, ma collocandosi nella scia di quel cinema che trasforma il ring in una metafora esistenziale.
Quello che emerge è un omaggio sincero e personale, non a un’icona imbattibile, ma a un uomo che ha combattuto contro sé stesso con la stessa intensità con cui affrontava i suoi avversari. The Smashing Machine rimane un lavoro a metà strada, sospeso tra momenti di delicatezza e una certa mancanza di incisività, ma conferma le qualità autoriali di Safdie e consegna a Johnson la sua interpretazione più vulnerabile e autentica, aprendo prospettive nuove e interessanti per la sua carriera lontano dal mito dell’action hero.
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