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Un semplice incidente: recensione del film di Jafar Panahi

Un semplice incidente, Palma d’oro a Cannes 78 per il film di Jafar Panahi, road movie come metafora di una terapia nazionale sull’Iran e la sua gente. Il regista condannato nel 2010 a sei anni di prigione, ritorna dopo il Leone d’Oro a Venezia nel 2000 per The Circle e l’Orso d’Oro a Berlino nel 2015 per Taxi Teheran con un film importantissimo che descrive risolutamente un Paese, criticando pesantemente il governo.

Ecco di seguito la recensione di Un semplice incidente, il film di Jafar Panahi.

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Un semplice incidente: trama del film di Jafar Panahi

La vicenda si apre con un’automobile che investe accidentalmente un cane su una strada deserta. Al volante c’è un uomo accompagnato dalla moglie e la figlia. Subito dopo questo incidente apparentemente banale, Vahid, un meccanico che lavora in officina, viene colto da un improvviso sussulto di terrore. Un cliente è appena entrato nel suo negozio e il suono dei suoi passi risveglia in lui ricordi atroci.

Vahid crede di aver riconosciuto Eghbal, l’agente carcerario più brutale tra quelli che lo hanno torturato durante la sua detenzione per ragioni politiche. Il problema è che Vahid non ha mai visto il volto del suo aguzzino: durante le violenze subite in carcere, veniva tenuto bendato. L’unico elemento di riconoscimento è proprio quel suono inconfondibile della gamba artificiale.

Consumato dal dubbio e dal desiderio di conferma, Vahid decide di mettersi alla ricerca di altri ex detenuti che possano identificare con certezza l’uomo. Inizia così un viaggio attraverso l’Iran, un percorso ossessivo che lo porta a incontrare persone che hanno condiviso la sua stessa esperienza di prigionia e abusi.

Un semplice incidente: recensione della Palma d’oro a Cannes 2025

Tutto inizia con un evento fortuito: un veicolo colpisce un animale nella notte. Un episodio insignificante, apparentemente. Eppure la compagna del conducente suggerisce che nulla avviene per puro caso, che esiste una volontà superiore dietro ogni accadimento. È proprio questa concatenazione inevitabile degli eventi a innescar Un semplice incidente.

Vahid, un meccanico, viene colto da un brivido: un suono metallico di passi, il ritmo di chi cammina con una protesi. Questo lo riporta ai giorni bui della sua prigionia, quando subì torture da parte di un agente spietato, conosciuto con il soprannome legato alla sua protesi. Non avendone mai visto il volto, Vahid rapisce l’uomo e si mette in moto per trovare qualcuno che possa confermarne l’identità.

Con questo nuovo lavoro, Jafar Panahi abbandona la dimensione autobiografica che aveva caratterizzato le sue opere recenti, rinunciando a mettersi davanti alla macchina da presa. Evitando la retorica militante fine a se stessa, il regista iraniano accantona la riflessione metatestuale che aveva contraddistinto parte della sua produzione a favore di un ritorno ad un cinema che sa trasformare episodi tragicomici in Manifesto di una nazione.

Il risultato è un’opera asciutta, costituita da un percorso narrativo cristallino che mette in mezzo temi quali l’oppressione, traumi e brutalità senza tralasciare una vena ironica nei dialoghi. E soprattutto, il film mette in scena prepotentemente l’odio di chi rischiando di assottigliare l’oppressore ne diventa pericolosamente simile.

L’opera risponde simultaneamente a due vie narrative. Da un lato, il film istituisce un’accusa implacabile contro le barbarie del sistema di potere iraniano e contro le derive più estreme dell’interpretazione della legge islamica. Non esistono giustificazioni o circostanze attenuanti: l’atrocità resta tale, e chi la commette non può trincerarsi dietro l’obbedienza alle istituzioni o la devozione a un credo. Dall’altro, il film sembra voler essere una sorta di terapia di gruppo, in cui vengono esposti tutti i dubbi e i tormenti legati al percorso di liberazione dal terrore.

Se è vero che questo approccio risulta forse meno articolato rispetto ad altre prove del regista, è pur vero che nella sua natura di road movie il film riesce a scorrere egregiamente, ritagliandosi momenti di leggerezza e umorismo, specialmente nell’epilogo.

È proprio questa concretezza a distinguere Un semplice incidente e il cinema iraniano di autori come Panahi e Ali Asgari (correte a vedere Divine Comedy, presentato a Venezia 82) da lavori recenti di altri autori più affermati, talvolta troppo preoccupati di far funzionare gli ingranaggi delle storie e di rendere troppo palese la simbologia implicita. Nel cinema di Panahi, invece, tutto possiede una materialità indubitabile, persino ciò che rimane fuori campo. E forse, suggerisce il film, non esiste davvero la possibilità di una riconciliazione. L’ombra del terrore si propaga nel tempo e anche quando resta priva di definizione, è sufficiente il rumore di alcuni passi per farla riemergere.

★ ★ ★ ★ ½

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Dario Vitale
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Passo il tempo libero guardando film belli. Mi piace anche leggere (pensa un po’!). Ogni tanto suono. Ah sì, sono uno studente di lingua giapponese che tenta di prendere la magistrale.