
26 Ott 2025 Once Upon a Time in Gaza: recensione del film dei fratelli Nasser
I gemelli Arab e Tarzan Nasser affrontano il compito di girare Once Upon a Time in Gaza, presentato nella sezione Un certain regard al 78° Festival di Cannes, scegliendo di narrare direttamente la dimensione storica del conflitto israelo-palestinese. I registi optano per raccontare l’intero macrocosmo della situazione dei gazawi, attraverso la storia di un contrabbandiere minacciato da un soldato israeliano. Sullo sfondo la tragedia sempre incombente, anche quando non è esplicitamente al centro delle notizie mondiali.
Ecco la recensione di Once Upon a Time in Gaza, il film dei fratelli Nasser.

Once Upon a Time in Gaza: trama del film
Presentato al Festival di Cannes 78 e alla Festa del Cinema di Roma 2025, il film ha segnato il cambio di rotta inaugurato da Juliette Binoche, secondo cui il tema è stato affrontato apertamente. Almeno due opere significative hanno trattato questa materia: oltre al film dei fratelli Nasser, anche Put your soul on your hand and walk di Sepideh Farsi, proiettato nella sezione ACID, dedicato alla fotoreporter palestinese Fatima Hassouna, tragicamente uccisa poco dopo aver appreso della selezione della pellicola al festival. A Venezia 82 il celebrato e necessario The voice of Hind Rajab di Kawthar ibn Haniyya ha vinto il Leone d’argento ed è stato scelto come rappresentante della Tunisia agli Oscar 2026
Mentre le esplosioni rendono pericolosa qualsiasi attività all’aperto. Yahya, giovane universitario, sviluppa un legame con Osama, proprietario di un chiosco di falafel dal cuore generoso. Dietro la facciata del ristorante si nasconde un traffico illegale: i due iniziano a distribuire sostanze stupefacenti insieme ai panini ripieni di falafel. L’idillio criminale dura poco: un agente di polizia senza scrupoli pretende la sua percentuale sui guadagni, minacciando Osama e mettendo a rischio l’intera operazione.
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Once Upon a Time in Gaza: recensione del film dei fratelli Nasser
La storia si ambienta nella Gaza del 2007 e segue due uomini che sono costretti a commerciare farmaci acquisiti da prescrizioni sottratte illegalmente. Le consegne vengono effettuate in taxi da Osama (rauco e encomiabile Majd Eid), mentre le pillole vengono nascoste nelle pite provenienti dalla piccola friggitoria di falafel del giovane Yahya (Nader Abd Alhay). Il primo, dal carattere temprato ma caloroso, è il mentore del secondo, un ragazzo che nutre il desiderio di ottenere il permesso per uscire dall’enclave per la prima volta e riabbracciare i familiari che vivono a brevissima distanza. Tuttavia, il corrotto agente Abou Sami (Ramzi Maqdisi), intenzionato ad approfittare del traffico di Osama, destabilizzerà completamente gli equilibri.
Due anni più tardi (immediatamente dopo l’operazione Piombo fuso), Yahya viene inaspettatamente scelto come protagonista de Le Rebelle, il primo action movie realizzato a Gaza, ideato dal Ministero della Cultura. Chiamato a rappresentare un’icona della nazione, apprende l’arte della recitazione durante riprese con mezzi limitatissimi, ma l’ormai promosso maggiore Abou Sami riappare.
La domanda sconcertante che da spettatori dobbiamo porci è: crediamo davvero che questa sia finzione cinematografica?
Partendo dalla struttura di un thriller con elementi western valorizzati da un’eccellente composizione musicale di Amine Bouhafa, Once Upon a Time in Gaza cattura l’intricata realtà dell’enclave palestinese. Riferimenti indiretti, momenti significati sin dall’inizio, come la voce di Trump che elogia il potenziale della Striscia come oggetto da manipolare e usare a piacimento. La retorica politica presente nel film dentro il film, le reazioni emotive durante le riprese dovute alla vicinanza delle scene alla realtà del conflitto: i fratelli Nasser costruiscono il metacinema velando un genuino attaccamento ai protagonisti e un’ironia persistente che consente ai due filmmaker di attraversare il pericoloso territorio politico senza mai compromettersi, incarnando una forma di opposizione non tradizionale che mantiene lucidità su tutto.
Le riprese sono state realizzate all’interno di un campo profughi palestinese situato in Giordania, e i registi sono riusciti a procurarsi alcune inquadrature aeree della Striscia e delle colonie israeliane. Lì si vede il nostro villaggio, dove siamo cresciuti, spiega con un sorriso amaro. E si vede quel muro, quel mondo di cemento dove non c’è spazio per respirare. Com’è la vita per i gazawi? È tutto lì. Questo è il vero significato di apartheid.
Sì, finirà, certo che finirà: è l’idea a cui ogni palestinese si aggrappa. Per questo continuano a resistere e a cercare un modo per sopravvivere, finché arriverà il momento in cui i loro diritti verranno riconosciuti, spiega Arab, che definisce l’arrivo a Cannes con questo film un miracolo. Vorremmo poterlo mostrare in condizioni migliori, in un’altra situazione. Mentre lo guardavo qui, il 70% del mio cervello era a Gaza e solo il 10% era sul film, ma sento che il pubblico non sta applaudendo noi, né il film: sta applaudendo Gaza. E questo mi riempie d’orgoglio.
Once Upon a Time in Gaza si conclude con sovrimpressione la scritta It will end, un’affermazione che viene subito da cogliere con speranza, ma ne siamo proprio sicuri? Il film lascia tante domande aperte sul futuro della terra martoriata, dimostrando come il cinema è strumento documentaristico e mezzo attraverso cui ricordarci chi siamo e come scegliamo scegliamo di vivere.
★★★★



