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Le Città di Pianura è il film italiano dell’anno – recensione

C’era una volta un cinema che, a discapito dell’attitudine promulgata con gli italiani brava gente, riusciva a raccontare due lati di una medaglia con su scritto Italia. Una medaglia degli ultimi. Usata, sporca e lacerata. C’era una volta un cinema che, vuoi che con i gloriosi Sordi, Fabrizi e Interlonghi si riuscivano a comporre piccoli capolavori come I vitelloni (1953) o Amici miei (1975), che con Tognazzi, Moschin, Celi e Philippe Noiret disseminava le temibili bravate dette “zingarate”.

C’era una volta un cinema che, come nel boom disilluso de Il Sorpasso (1962) si raccontava una generazione disillusa da un apparente avanzamento. C’era una volta tutto questo cinema, che il regista Francesco Sossai prende e utilizza per girare il suo Le Città di Pianura.

Ecco la recensione de Le Città di Pianura, il film di Francesco Sossai.

Le città di pianura
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Le città di pianura: trama del film di Francesco Sossai

Distribuito da Lucky Red, Le Città di Pianura è un film diretto da Francesco Sossai, con Filippo Scotti, Sergio Romano e Pierpaolo Capovilla.

Le Città di Pianura si svolge in Veneto e segue la storia di Carlobianchi e Doriano (Sergio Romano e Pierpaolo Capovilla), due amici che hanno passato i cinquanta ma che si sentono ancora ragazzini, ostinatamente aggrappati a un’eterna adolescenza.
La loro vita è fatta di bevute e di notti interminabili in cui fanno immancabilmente le ore piccole, inseguendo sogni sfocati. Senza un soldo e senza una meta precisa, hanno un solo rituale sacro: l’ultimo giro da un bar all’altro, come se nel fondo di un bicchiere potessero ancora trovare un senso. Durante una di queste serate storte, incrociano per caso Giulio (Filippo Scotti), un giovane studente di architettura dall’animo gentile e lo sguardo sognatore.

Le città di pianura: recensione del film di Francesco Sossai

Non c’è mai un’altra volta

Le città di pianura di Francesco Sossai è un road movie che sorprende per la sua capacità di raccontare uno spaccato della vita di due persone, sgangherate e perse nella loro vita. Ma ci riesce benissimo. Presentato al Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard, il film del regista veneto riesce a conquistare con uno sguardo obliquo e penetrante la realtà contemporanea.

Ciò che rende quest’opera particolarmente riuscita è l’equilibrio tra tenerezza e disincanto che permea ogni scena, accompagnato da una straordinaria sintonia tra gli spazi attraversati e la psicologia dei personaggi. I protagonisti mantengono intatta la loro umanità e la complicità che li lega, nonostante la società li etichetti come perdenti. È proprio in questa resistenza che risiede la forza della narrazione, che vede sin dall’inizio un punto di ritrovo col finale, che non vuole arrivare , proprio come “l’ultima”, mai.

Il film seduce per l’intelligenza narrativa, la grazia espressiva e un umorismo ricco di sfumature, caratterizzato da una dimensione sia fisica che antropologica. Francesco Sossai dimostra grande maestria nell’intrecciare il regionalismo con anche i problemi che costituiscono la penisola italiana, creando un’opera che dialoga con maestri italiani (e non) del passato.

Secondo la testimonianza dello stesso regista, il film trae origine da un incontro casuale avvenuto una notte invernale circa un decennio fa a Venezia con uno studente di architettura. Da questo episodio il regista e il co-sceneggiatore Candiago hanno sviluppato un film che assembla frammenti di realtà: scorci visivi, momenti di dialogo catturati negli spazi pubblici, conversazioni ascoltate distrattamente in bar, treni e piazze. Il risultato è una narrazione che mantiene radici profondamente territoriali pur acquisendo una risonanza nazionale, e perchè no, universale. La prima parte si focalizza molto sul tema del carpe diem e sulla percezione del tempo.

Il film prosegue portando in scena il contrasto tra momenti di speranza illimitata e quelli in cui la vita assume direzioni inaspettate, costringendo i personaggi in un nomadismo perpetuo attraverso un vagare senza alcuna destinazione. Strutturato come un road movie malinconico attraverso la pianura veneta, il racconto alterna sequenze surreali che attingono dalla storia di un’Italia raccontata dal cinema italiano.

Le città di pianura
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Le Città di Pianura: recensione – Siamo troppo vecchi per crescere

Non c’è mai un’altra volta, la frase pronunciata a inizio film dalla breve ma intensa interpretazione di Giulia Bertasi, l’inarrivabile musa dello studente modello Giulio (un ottimo Filippo Scotti), richiama nell’arco di 98 minuti un tripudio di cinema e di esperienze che vengono condensate nel rapporto apparentemente impossibile dello studente di architettura con la collega, e dal rapporto dei due sgangherati e la loro vita.

Le performance degli attori, calati in parte come se fosse un documentario (qui viene da rifletterci un po’), caratterizzano un film pieno di intensità, malinconia e profondità emotiva. Ciò che emerge con forza è come il film respirri l’energia del miglior Dino Risi, quella cifra stilistica capace di coniugare il grottesco della bravata e della realtà.

Il film, che attinge tanto (forse troppo?) da Il Sorpasso (1962), percorre una strada dove la commedia si eleva per diventare dramma sociale, portando in scena dei rapporti di amicizia tra illusi e disillusi. Un ensemble di attori calati perfettamente in parte restituisce la profonda verità di personaggi magistralmente costruiti, con facce indimenticabili.

L’esistenza dei tre personaggi de Le Città di Pianura mette in scena la precarietà schiacciata dalle convulsioni economiche. Dediti a occupazioni ambigue e al consumo dell’alcol come vera e propria filosofia di vita, i tre sono l’altra faccia di un modello di sviluppo glorificato. Il film indirizza il suo sguardo critico infatti verso il tradimento di un’intera nazione e di una regione, il Veneto, storicamente celebrata come fulcro della tanto decantata imprenditoria diffusa.

La breve e forse troppo poco storia di Genio, figlio di agricoltori, vede come esempio il riscatto mancato che non trova più nella sua stessa campagna, luogo che sin da bambino aveva deturpato la famiglia prendendosi suo padre. La campagna si è ora trasformata in merce ed è stata violata e deturpata.

Giulio, al contrario, apprende dai suoi strani compagni una lettura più soggettiva e Felliniana del mondo. Gira costantemente con mappe: vaga eppure cerca significato. Mentre i due bevitori proseguono ostinatamente nel loro stile di vita analogico, dimostrando il connubio di un’Italia, quella contemporanea, che si lascia fagocitare da uno sviluppo che cancella tutto ciò che risulta desueto. Cosa resta del passato?

Le Città di Pianura si dimostra un film efficace nel portare luce dove l’umanità sembra destinata a essere dimenticata, con un’atmosfera originalissima di un Veneto che, come Charlie e Dori, sembra destinato a sparire.

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Dario Vitale
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Passo il tempo libero guardando film belli. Mi piace anche leggere (pensa un po’!). Ogni tanto suono. Ah sì, sono uno studente di lingua giapponese che tenta di prendere la magistrale.