
10 Mar 2025 L’orto americano è il segno che il gotico deve continuare a vivere anche nel cinema italiano
Il rinomato regista e sceneggiatore Pupi Avati torna al cinema con L’orto americano, presentato in anteprima il 7 settembre 2024 come chiusura dell’81ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Avati, la cui carriera abbraccia oltre cinque decenni, ha esplorato diversi generi nel cinema, ma si è distinto con i più celebri La casa dalle finestre che ridono (1976) e Una gita scolastica (1983). L’orto americano segna il vero ritorno all’horror del regista bolognese, in sala dal 6 marzo 2025. Ecco la recensione de L’orto americano, il nuovo film di Pupi Avati:

L’orto americano, la trama del film di Pupi Avati
Nella Bologna del 1945, subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, un giovane aspirante scrittore (Filippo Scotti) incontra per caso Barbara (Mildred Gustafsson), una infermiera dell’esercito americano di cui si innamora. Un anno dopo, il protagonista si trasferisce negli Stati Uniti, nel Midwest, in cerca di ispirazione per scrivere. Si stabilisce accanto alla casa di un’anziana signora (Rita Tushingham), una donna tormentata dalla sparizione della figlia. Riconoscendo nella figlia della donna l’amata Barbara, il giovane scrittore inizia a cercare informazioni su di lei. L’orto della casa di Flora, da cui proviene una voce in cerca di aiuto, diventa il primo passo di un lungo mistero che lo condurrà di nuovo in Italia.
L’orto americano, la recensione del film di horror di Pupi Avati con Filippo Scotti
Dopo aver spaziato in generi e luoghi con una carriera che copre più di quaranta pellicole, Pupi Avati torna al cinema di genere che lo ha reso incomparabile ad altri: l’horror gotico. Con L’orto americano, il regista bolognese classe 1938 si confronta nuovamente con le atmosfere cupe e ambigue che hanno caratterizzato i suoi primi film.
Sono riscontrabili sin da subito le influenze dei colleghi del settore, da Carl Theodor Dreyer e Alfred Hitchcock fino a l’artigiano del cinema Mario Bava, citato in apertura di Venezia 81 nell’omaggio che Tim Burton inserisce in Beetlejuice Beetlejuice. Si notato quindi, con forza, le configurazioni tradizionali del cinema del terrore, fatte di luoghi macabri e personaggi tetri.
Presentato Fuori Concorso come film di chiusura di Venezia 81, L’orto americano è l’adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo scritto dallo stesso Avati. Il film si sviluppa come un’opera densa di riferimenti culturali, in un’Italia della Seconda Guerra Mondiale, che passa sempre più in secondo piano a favore dei caratteri psicologici dei personaggi, in primis il protagonista interpretato da Filippo Scotti.
Il nostro giovane aspirante scrittore si muove tra la Bologna del dopoguerra, distrutta e macerata (ma col barbiere intatto), e l’illusoria serenità del Midwest americano. Il film introduce fin da subito una dimensione quasi simbolica, in cui la figura femminile si carica del valore mistico, come nel precedente Dante (2022) dello stesso Avati. La giovane soldatessa americana di cui il protagonista si invaghisce rappresenta infatti una sorta di Beatrice contemporanea, che però distrugge la figura dantesca con le pietre e le macerie fisiche e psicologiche della guerra.
Il giovane scrittore, tormentato dalla perdita dei parenti, viene recluso in manicomio come un malato mentale all’età 18 anni. All’uscita, tenta di rifugiarsi nella scrittura. Con Il trasferimento negli Stati Uniti, in una delle tranquille townhouse del Midwest, prende forma il vero cuore oscuro del film: un misterioso caso di cronaca nera che collega l’Italia e gli Stati Uniti. L’orto della casa di fronte cui il protagonista alloggia diventa il luogo da cui si sviluppa una vicenda inquietante: l’amore nato da uno sguardo l’anno precedente deve ora essere ritrovato, in un intreccio che coinvolge un processo, due fratelli malati e un manicomio.

L’orto americano è il gotico che rinasce a discapito di alcune increspature narrative
Dal punto di vista della forma, Avati dimostra ancora una volta la sua capacità di creazione delle giuste atmosfere suggestive e cariche per tutto il film, sebbene la struttura frammentata, precisamente nel passaggio tra Stati Uniti e Italia, sembrerebbe discontinua. A livello narrativo sembra infatti voler quasi intenzionalmente indebolire il racconto e far passare il protagonista in secondo piano nell’atto centrale, in cui entrano in scena il personaggio di Glauco (Armando De Ceccon) e Emilio (Roberto De Francesco).
Nel momento in cui il protagonista si immerge nelle atmosfere della nebbia padana, ci sono dei forti richiami visivi a La casa dalle finestre che ridono: vediamo verso la fine del film una dimora galleggiante, che rievoca la storia meta cinematografica del regista, in quel punto dove dove le acque dolci del Po si incontrano con quelle salate del mare.
La scelta del bianco e nero nella fotografia curata da Cesare Bastelli, storico collaboratore di Avati, sottolinea la maestria di Avati nell’utilizzo tecnico del mezzo-cinema, capace di cangiare i paesaggi nebbiosi e le ambientazioni padane in vere e proprie valli del terrore, fredde e desolate.
Un plauso particolare va anche alla colonna sonora, composta da Stefano Arnaldi: i toni volutamente alieni richiamano il cinema anni ‘60 di Bava, ma anche i classici come L’invasione degli ultracorpi (1956) di Don Siegel. Insomma, L’orto americano si presenta come un’opera che riesce a far riemergere l’essenza del gotico nella nostra cinematografia, ormai radicata in commediole perditempo e pochi e scarsi guizzi autoriali.
Sui punti dolenti (e non poco) del film, è evidente che spesso l’aspettativa di alcune scene viene distrutta completamente dalle scelte narrative. Sebbene Avati riesca infatti a mantenere un certo fascino visivo, la costruzione del mistero appare a tratti priva della carica che caratterizza in positivo i primi piani sugli attori, ma che si disfà nello sviluppo della trama. In sintesi, la rappresentanza visiva insieme al comparto tecnico riescono a infondere in molte sequenze la giusta dimensione autoriale, ma il film risulta compromesso da uno sviluppo narrativo che non sempre riesce a sostenere la complessità delle premesse.
Nonostante queste criticità, L’orto americano resta un’opera sincera e assolutamente da promuovere per un autore come Avati, che all’età di 85 anni dimostra di poter comporre un thriller/horror dalle tinte gotiche e con momenti surreali, portando in scena attori di ottima qualità come Filippo Scotti.
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