
25 Lug 2025 Presence: un’esperienza sensoriale a servizio di una velenosa ed atipica ghost-story
Dopo essere arrivato nei nostri cinema con Black Bag – Doppio gioco, il regista Steven Soderbergh torna nelle nostre sale con Presence, nonostante il film sia del 2024 ed ha già fatto il suo giro di anteprime. Un’esperienza fantasmatica che vede come protagonista una famiglia composta da Lucy Liu, Chris Sullivan, Eddy Maday e Callina Liang. Ecco di seguito la recensione di Presence.
Presence: la trama del film di Steven Soderbergh
Proprio come nel caso del film con protagonista Michael Fassbender, anche in Presence continua il sodalizio tra il regista Steven Soderbergh e lo sceneggiatore David Koepp, alla loro terza collaborazione. Presence vede come protagonista una famiglia formata da madre (Rebekah), padre (Chris), figlio maggiore (Tyler) e figlia minore (Chloe), che sceglie di trasferirsi in una nuova casa di periferia.
La decisione di cambiare vita arriva anche e soprattutto in seguito ad alcuni fatti che hanno sconvolto le vite dei membri della famiglia, specialmente la perdita di due amiche per Chloe. Proprio il momento di disperazione e l’incapacità di ricominciare a vivere, porterà la ragazza a percepire una Presenza che si aggira per la casa e che si farà sempre più presente con il passare del tempo.

Presence, la recensione: la passività della sala come nella vita
Sta soffrendo. Sì, come te.
“Una storia di paura unica nel suo genere”. “Rivoluziona l’horror per come lo conosciamo”. “Un horror ipnotico e avvincente”. Tanto furbamente intelligente quanto pericolosamente fuorviante la campagna marketing per il “nuovo” film diretto da Steven Soderbergh. Dal suo trailer ufficiale si assiste infatti ad un sonoro molto sinistro, ad immagini d’inseguimento al cardiopalma, con le tagline volte a spingere un “horror rivoluzionario“.
Peccato che Presence non possa mai essere inteso parte del genere, se non per il suo elemento fantastico ed una sottotrama che si sposta verso un thriller particolarmente teso ed affilato. Il film del regista di Traffic, infatti, è molto più intelligente di una sua piatta commercializzazione e di un inutile restringimento in generi, nonostante la costrizione e la claustrofobia siano sue armi vincenti.
Horror gotico moderno all’apparenza (la casa infestata, la Presenza tormentata che si aggira tra stanze e corridoi, l’arrivo della medium), Presence resta a tutti gli effetti un dramma da camera, un kammerspiel. Come per Kimi – Qualcuno in ascolto, torna lo spazio invalicabile, una certa incarnazione dell’agorafobia che continua a mostrare gli strascichi dell’esperienza pandemica ma, in questo caso, il rimanere intrappolato non acquista solo valenze drammaturgiche o tecniche, ma narrative.
Lo spettatore vive in prima persona le vicende che si svolgono all’interno della nuova dimora della famiglia, diventa la Presenza stessa, i suoi occhi e le sue orecchie. Proprio come il soggetto passivo in sala cinematografica, il fantasma della storia assiste in maniera inerme (ci arriviamo) alle dinamiche interne un problematico focolare domestico, gli scontri ed incontri tra madre e figlia, tra padre e figlio, tra fratello e sorella. I protagonisti arrivano ad assumere essi stessi un ruolo “spettrale”, incapaci di instaurare un vero contatto soprattutto fisico tra loro, se non in qualche momento spazzato immediatamente via da una freddura ben più dirompente.
Da Storia di un fantasma al suo Diario. Le varie scene che si susseguono in un tempo volutamente imprecisato, andando a registrare l’evoluzione nell’esplosione ed implosione all’interno della famiglia in una fase delicata, tra elaborazione del lutto, un matrimonio quasi alla fine e rogne professionali. Tirando i lunghi piano-sequenza, per enfatizzare il disagio emotivo nelle 4 mura, la sceneggiatura di Koepp riesce ad incastrare sfaccettature dei caratteri, dinamiche narrative e costruzioni ambientali davvero efficaci ed intriganti, mancando tuttavia una vera struttura solida ed esaustiva.
Troppi elementi a malapena accennati e che sono privi della forza necessaria per entrare all’interno del racconto. I guai nella professione di Rebekah restano fumosi, le idee di divorzio di Chris non riescono a rendere tangibile il loro peso emotivo e da quanto esista questa condizione, la vita personale e scolastica di Tyler restano fuori dalla porta. Oltre agli accenni più o meno utili ai fini della narrazione, i personaggi di madre e figlio si renderebbero poi davvero innaturali ed incomprensibili, specialmente nell’astio dimostrato nei confronti della loro figlia/sorella che sta vivendo questo momento così delicato.
Poi c’è lei appunto, Chloe, che viene sicuramente tratteggiata meglio da Koepp e verso la quale appunto il fantasma/spettatore inizierà ad interessarsi sempre più. Ecco arrivare il gran finale con i suoi bei colpi di scena ma, proprio a tal proposito, gli interrogativi messi precedentemente da parte iniziano a moltiplicarsi. Ci si potrebbe chiedere se la Presenza sia davvero confusa, come affermato dalla medium, o conosca fin dall’inizio le persone in casa; del perché in alcuni momenti questa riesca a spostare fisicamente gli oggetti mentre in altri non riesce per salvare la situazione ecc.
Siamo infatti dalle parti dell’autore che non intende dare troppe spiegazioni, specialmente con il metafisico di mezzo (non intacchiamo neanche la sfera temporale), ma gli interrogativi restano ed in alcuni casi sono anche scomodi. Ad eccezione di un finale concitato e fatale (con il “fatale” inteso in diversi modi), il film comunque non offre troppi punti di svolta, una debole e fumosa caratterizzazione dei personaggi e molte occasioni perse.
Completamente assente infatti un ruolo tecnologico-sociale potenzialmente presente nel film, che ha ormai instaurato da tempo un Grande Fratello nelle case di chiunque, con il “fattore spia” che è sicuramente più presente nel successivo/precedente Black Bag. Presence perde poi la ghiottissima occasione di addentrarsi nel disagio giovanile, la depressione vissuta sul letto della propria camera, il giro di droghe e sostanze stupefacenti.
Il tutto viene infatti relegato al finale come detto “fatale”, nel senso anche di tagliare la testa al toro della drammatica analisi sociale in virtù del film con il serial killer. Sia inteso, il film è un gran diesel che nella parte finale esplode di una violenza tagliente e di una tragica poesia, indovina anche tecnicamente i suoi colpi, ma si limita a raccontare la sua “storiella”.
Il mostro resta in soffitta
Ma come viene vissuta questa “storiella”? Soderbergh continua ancora una volta a dimostrarsi un abile sperimentatore ed un innovatore di generi, tecniche e modi di concepire lo sguardo cinematografico. Il regista di Delitti e segreti ricostruisce una vera esperienza sensoriale e cinematografica a 360°, riuscendo nella semplicità a rendersi particolarmente originale.
Il film diventa esso stesso una fantasmatica presenza del regista durante la visione, con Soderbergh che ha infatti curato personalmente regia, fotografia e montaggio. Questi tre aspetti non possono infatti che confluire nella tecnica del piano-sequenza, molto sfruttata ed incoraggiata nel sostenere la funzione immersiva, nel vivere l’esperienza il più soggettivamente possibile.
Le scene allungate e tirate permettono a questo punto di far penetrare al meglio il disagio presente in quella casa, appesantendo (positivamente parlando) una visione comunque particolarmente mantenuta negli 85′. Al resto ci pensa una fotografia di altissimo livello, che forse avrebbe potuto osare maggiormente con filtri e giochi di luce, ma che assicura una visione geometrica, pulita ed intelligente.
Particolarmente funzionale anche l’utilizzo del comparto sonoro, lasciato per la maggior parte nel vuoto del silenzio e capace di stimolare le giuste vibrazioni nei momenti più adeguati. In conclusione, Presence è una ghost story atipica, vissuta non attraverso gli occhi dei protagonisti nel vedere la propria casa infestata, ma attraverso quelli della presenza fantasmatica che osserva una “famiglia di spettri”.
A differenza di locandine e promozioni, l’horror viene lasciato intelligentemente fuori dalla porta, privilegiando un drammatico kammerspiel che assume le tese derive di un thriller particolarmente affilato. Sarebbero davvero molti gli spunti di riflessione presenti nel film, dal disagio giovanile al metacinema, ma Presence si “accontenta” di raccontare la sua storia, attraverso un comparto tecnico ed una messa in scena di alto livello.
★ ★ ★ ½
