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Frankenstein, la recensione: il cuore dietro il mostro

Un racconto di immortalità e dolore che cerca di unire il gotico al mainstream.

Guillermo Del Toro torna a Venezia con la storia delle storie, quella che più di ogni altra incarna il mito del mostro. Il suo Frankenstein non è l’ennesima rivisitazione del romanzo di Mary Shelley, ma un racconto di paternità ferita, ossessione e fragilità, in cui la linea tra creatore e creatura si assottiglia fino a scomparire.

Oscar Isaac dà corpo a un Victor Frankenstein tormentato, brillante e autodistruttivo, uomo che confonde il genio con l’arroganza. Jacob Elordi, al contrario, plasma una Creatura che non incute paura ma compassione: uno spirito antico intrappolato in un corpo ricomposto, che cammina come se stesse imparando a esistere per la prima volta.

Mia Goth porta sullo schermo una Elizabeth ambigua e magnetica, quasi spettrale. Nei suoi gesti si respira la poesia cupa tipica del cinema di Del Toro. Accanto a lei, Christoph Waltz incarna con eleganza la figura dell’industriale che finanzia le follie di Victor, incarnazione del potere cieco che alimenta la distruzione.

Frankenstein: una struttura divisa in tre parti

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Il film si apre tra i ghiacci nel lontano 1857 con l’incontro con la Creatura e si snoda in un lungo flashback che proietta l’adolescenza di Victor, segnata dalla perdita materna e da un padre inflessibile e incapace di amare. È la ferita originaria che lo spinge a sfidare Dio e a cercare di vincere la morte. Ma in questo tentativo di creare la vita, Del Toro sembra dirci che non c’è nulla di più umano della fragilità che cerchiamo di nascondere.

Il film è scandito in tre atti: dal punto di vista di Victor, a quello della Creatura, fino all’epilogo finale. Ogni parte porta con sé un diverso registro, ma senza mai fondersi in un insieme armonico. Visivamente, la pellicola oscilla: dalle esplosioni e ombre del prologo, alla centralità barocca e sospesa della creazione, fino a un epilogo che sembra più concettuale che emozionale.

Del Toro orchestra il tutto con mano esperta, ma il risultato è un ibrido che guarda al mainstream senza trovare una vera coerenza. Nel tentativo di coniugare anima autoriale e grande spettacolo, il film perde la forza visionaria che da sempre contraddistingue il regista.

Frankenstein: solo i mostri giocano a fare Dio

Il vero orrore, come ci suggerisce Del Toro, non è la Creatura, ma l’incapacità dell’uomo di accogliere ciò che non comprende. Un’idea potente, che però resta appena abbozzata. L’approfondimento psicologico dei personaggi si riduce a tratti schematici, mentre i momenti emotivi risultano più illustrativi che realmente sentiti. 

Così, ciò che avrebbe potuto essere l’incontro perfetto tra artista e materiale si rivela un’opera saltuaria e con una scrittura fragile, incapace di reggere il peso delle aspettative. L’equilibrio tra il cuore gotico e l’ambizione spettacolare non funziona: resta un film che emoziona a tratti, ma che si perde nella sua stessa grandiosità.

★ ★ ½

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Sono Luca Zeppilli, il fondatore de I Soliti Cinefili. Un progetto, nato dalla grande passione per il cinema che ad oggi mi ha portato ad ampliare le interazioni in questa community a disposizione di ogni utente. La mia passione per il cinema nasce un po’ per caso: semplicemente guardando un film dopo l’altro con immediata opinione e voto al termine visione. Con il passare del tempo la mia concezione per la settima arte è completamente cambiata, portandomi a puntare all’obiettivo di diventare un critico cinematografico. Obiettivo che ho raggiunto nel 2024 entrando a far parte del Sindacato Nazionale dei Critici Cinematografici Italiani. Nel corso degli anni ho partecipato a numerose anteprime nazionali ed eventi, tra cui il Lucca Film Festival dove ho svolto l’incarico di Giurato Stampa nell’edizione 2022 e nell’edizione 2023. Inoltre, sono ospite tutti i giovedì alle 22:30 al programma radiofonico Suite 102.5 su RTL 102.5 e tutte le domeniche alle 16:30 al programma LaB - Lo Spazio delle idee a cura di Beatrice Silenzi su Radio Linea N°1.