Recensione del film Mickey 17

La difettosa e spettacolare ristampa di Mickey 17

Successivamente ad essere passato dalla Berlinale 2025, arriva nelle sale italiane dal 6 marzo il nuovo film dell’acclamato regista di Parasite Bong Joon-ho. Con protagonista un “sacrificabile” Robert Pattinson, che guida un cast stellare, Mickey 17 è un ritorno alla fantascienza per l’autore, immediatamente dopo il grande trionfo agli Oscar 2020. Ecco di seguito la recensione di Mickey 17.

Mickey 17: trama del film di Bong Joon-ho

Il nuovo film prodotto, scritto e diretto dal regista sudcoreano è basato sul romanzo quasi omonimo Mickey 7 di Edward Ashton, per un film di fantascienza tra avventura e commedia, tanto grottesca quanto sentimentale. La storia è quella del personaggio che dà titolo al film, Mickey Barnes, assunto nel ruolo di “sacrificabile” per il Comitato guidato dal magnate Kenneth Marshall.

Una nave spaziale è infatti in partenza dalla Terra per colonizzare il lontano pianeta di Nilfheim e il ruolo del “sacrificabile” (in originale Expendable) è determinante per far progredire la colonia su un pianeta sconosciuto. Mickey dovrà quindi misurarsi con le condizioni climatiche, i possibili virus possibili sul nuovo suolo, nonché con la fauna locale. Ad ogni morte del Sacrificabile, i suoi ricordi e le sue memorie verranno registrate come progresso scientifico, mentre il corpo di Mickey verrà ogni volta ristampato attraverso una tecnologica all’avanguardia.

Si instaura un ciclo che porterà Mickey a morire 16 volte, fino a quando non verrà dato nuovamente per morto e fatto ristampare nel suo nuovo corpo. L’esemplare numero 17, tuttavia, non è morto ed ora sulla nave colonia girano 2 Mickey (17 e 18), violando il protocollo che pone il fermo divieto di poter creare dei multipli pena la distruzione permanente. Ora Mickey ha davvero paura di morire senza poter essere ristampato.

Mickey 17: trama del film di Bong Joon-ho

Mickey 17, la recensione: la speranza di ricominciare

D’ora in poi ti abituerai a morire, è il tuo lavoro.

Poche settimane fa si parlava in Heretic di “iterazioni”, entrando in un discorso di copie e plagi reiterati che portavano non solo ad una manipolazione del controllo, ma anche ad un svilimento del materiale originale. In Mickey 17 il concetto di “iterazione” viene in un certo senso rovesciato, assistendo qui alle continue “ristampe” del personaggio protagonista con il materiale raccolto, di volta in volta, funzionale al proseguimento della specie.

La crescita di uno sviluppo scientifico che, tuttavia, non va naturalmente di pari passo con quello umano e morale, con l’essere umano destinato a riscaldare sempre la solita minestra avvelenata. Da questo punto di vista il film va dritto al punto e, nonostante ci si sposti di un intero pianeta, l’uomo finisce sempre e comunque a ritrovarsi a cena per parlare di suprematismo, colonialismo, fascismo e compagnia pessima. Prima di approdare su questo territorio (purtroppo fin troppo conosciuto), occorre preliminarmente “spendere” due parole sulla chiave principale di Mickey 17 ed il termine non viene usato a caso.

Il protagonista del film viene identificato come “sacrificabile”, con la dicitura originale (Expendable) che darebbe forse un’idea migliore della disumanizzazione del processo ormai assimilato da tutti nella comunità. Il protagonista perde infatti il diritto di avere un nome, diventa un numero, una risorsa spendibile per raggiungere l’obiettivo dei c.d. “poteri forti”, o semplicemente coloro che detengono il potere. Fin troppo accomunabile infatti il personaggio interpretato da Robert Pattinson ad un soldato, mandato in guerra per gli interessi di qualche potente di turno dietro una scrivania, non allontanandosi troppo nemmeno dal “normale” ambiente lavorativo.

Lo Expendable è anche l’impiegato/operaio che viene semplicemente sostituito da un collega meno costoso e più efficiente, oppure direttamente da una macchina, facendo entrare in gioco il tema del rinnovamento tecnologico quale altro pilastro del film. Oltre alla critica al progressivo ed algoritmico processo produttivo, il film vede come Expendable anche e soprattutto gli animali usati come cavie da laboratorio (nel film Mickey pensa che quello che gli sta accadendo sia una sorta di punizione per aver vivisezionato una rana a scuola), facendo nuovamente emergere l’animo animalista ed ambientalista dell’autore di Okja.

A diventare una cavia di laboratorio in Mickey 17 è appunto il suo “topolino” protagonista, in fuga da un pianeta Terra ormai allo sbando e finito nuovamente in trappola, costretto a morire e rinascere ancora e ancora. Unica salvezza di Mickey nello spazio profondo si incarna così nel personaggio di Nasha, con l’amore ed il sentimento verso una persona umana (con 2 si raddoppia il piacere, figurarsi con un’intera specie) che rappresenta forse l’unica speranza per un futuro migliore.

Sebbene nel film si torni infatti a parlare di sostituzione etnica, suprematismo bianco e colonialismo (diretto il riferimento dello sfogo di Nasha allo sterminio degli “indiani” nativi americani), è proprio in questo scenario che Mickey 17 diventa un film di speranza. La speranza di un mondo migliore, sorretto dall’amore, dalla giustizia e dalla pacifica convivenza; a suo modo un mondo anche utopico ed ancora distante anni luce proprio come Nilfheim.

Una difettosa ristampa

Cosa si prova a morire?

Viene fatta continuamente questa domanda al protagonista di Mickey 17, sempre troppo disorientato per rispondere, anche perché in un continuo metabolizzare ciò che gli sta accadendo. Arriva finalmente una risposta, con il personaggio (anche la sua versione più sicura di sé e dominante) che confessa di provare ogni volta paura. Da questo punto di vista, purtroppo, il film non riesce ad andare chissà quanto oltre, con il tema esistenziale che avrebbe potuto prestarsi ad una stragrande varietà di tematiche e modalità da adottare.

Non scalfendo minimamente altre analisi (ad esempio quella del “doppio su tutte), quella dei multipli diviene semplicemente una trovata per svoltare la narrazione da un lato e, dall’altro, permettere al protagonista di provare effettiva paura di venire eliminato per sempre. Qui la trama di Mickey 17 inizia ad ingarbugliarsi, con la questione “Multipli” che trova un riparo a fatica. Passi la scena dello scontro tra i due Pattinson (in quel momento solo N18 sapeva dell’esistenza del N17 e quest’ultimo non sarebbe stato ristampato), ma al di fuori di questo momento la paura in sé di scomparire permanentemente perde valore, con lo stesso N17 che adotta il piano di venire ristampato a volte alterne, tra pari e dispari.

Nella scena della cena con Marshall, ad esempio, Mickey N17 sarebbe stato nuovamente ristampato dalla squadra scientifica presente e chiedere, in quel momento, di non morire è forse logicamente fuori luogo. Non solo. Sempre rimanendo al tema dei Multipli, tale pratica è stata infatti bandita principalmente sulla Terra per questioni prevalentemente morali (nel film si parla anche di filosofia), in collegamento a quella di ristampare esseri umani e alle vicende del serial killer che ha abusato di questa tecnologia.

Una volta nello spazio e cercando di mettere in pratica tutto il possibile per far progredire la specie, tale divieto “terrestre” risulta effettivamente di troppo, soprattutto se si considera come l’unico Sacrificabile sulla nave sia Mickey, il che alquanto improbabile. Oltre alla problematica dei “Multipli”, sono tuttavia molti altri gli aspetti critici presenti nel film (come l’inutile ritorno della minaccia del sicario solo per concedere una sottotrama al personaggio di Timo), a cominciare dalla questione razziale.

La branca più esistenziale e filosofica della nuova regia di Bong Joon-ho, determinata potenzialmente dall’approccio con la morte e con il proprio doppio, viene infatti “sacrificata” a sua volta a favore delle dinamiche sociali e politiche, punto fermo della filmografia dell’autore. Proprio come in Snowpiercer, Parasite e molti altri, anche in Mickey 17 si parla della lotta all’interno e tra classi sociali, di chi si può permettere di sperimentare salse pregiate e di chi quotidianamente riceve la “solita sbobba”. Il tema socio-politico, tuttavia, si sposta appunto ferocemente sul suprematismo (bianco) e sulla guerra alle altre specie/etnie.

Emblematica la scena della cena speciale, dove il personaggio di Kai viene designata come esemplare perfetto, rigorosamente bianco ed atletico per far progredire la specie, oggettificando il suo corpo per il proliferare della razza pura. Una serie di ideologie terrificanti, ricavate dal contesto attuale, ravvicinate in pochi minuti e dalla rappresentazione disarmante. Peccato che, anche qui, i punti deboli dello scritto non manchino. A margine il fatto che lo stesso personaggio di Kai sia effettivamente inutile poi ai fini della narrazione, ma il discorso si blocca e muore direttamente alla cena.

Ci sarebbe da chiedersi infatti, qualora Marshall guidi effettivamente la spedizione che dovrà far nascere una nuova colonia su un pianeta, come siano stati arruolati membri dell’equipaggio che vadano diametralmente all’opposto le sue scandalose opinioni. Come ha fatto quindi Nasha in particolare a ricoprire un ruolo socialmente rilevante all’interno della comunità? Sarebbe stata poi sterminata in qualche piano segreto?

Con questi ed altri interrogativi rimasti appesi la questione razziale viene effettivamente buttata sul tavolo senza un degno sviluppo, mai più ripresa all’interno della narrazione che, ancora una volta, sposta il suo focus arrivando alla sostituzione degli umani alla razza autoctona. Partendo da questioni “reali” della sacrificabilità dei lavoratori, Mickey 17 prende la navetta ed approda sul pianeta del colonialismo e della sostituzione etnica, passando per le questioni esistenziali e filosofiche del significato della morte (e quindi della vita) oltre a quello identitario in una società in continua rinnovazione tecnologica.

Insomma in Mickey 17 c’è un po’ di tutto che, proprio come il meccanismo della stampante, rappresenta un rimpasto di temi, idee ed ambientazioni già assimilate. Raggiungendo infatti diversi aspetti (non tutti portati a casa con successo), il problema principale del film è che forse manca una vera “originalità” del suo racconto che, soprattutto in un ambiente fantascientifico, non è cosa da poco. Da Moon agli altri classici della fantascienza, gli spunti narrativi in Mickey 17 non sono sicuramente nuovi e, soprattutto, già presenti nella filmografia dell’autore.

Dopo il trionfale successo di Parasite, Bong8 mostra così la sua ottava ristampa, con una qualità sempre differente grazie alle sue speciali doti camaleontiche, ma in questo caso senza discostarsi né per temi né per ambientazione. Gli echi a Snowpiercer, a Okja e lo stesso Parasite (specialmente per una questione di forma) sono continui, evidenti e reiterati con Mickey 17 che, rispetto a tutti gli altri suoi grandissimi lavori, non riesce a fare quel passo in avanti ulteriore.

Recensione film Mickey 17 con Robert Pattinson

Genio e spettacolo targato Bong8

Anche al mio 17° giro…odio morire.

In Mickey 17 quindi manca sicuramente un necessario “effetto sorpresa”, quel graffio ulteriore che ci si aspetta sempre da un regista di questo calibro. Nonostante infatti le criticità nella sceneggiatura, si parla in questo caso appunto di un enorme potenziale sprecato, con il film che rappresenta in ogni caso uno spettacolo per gli occhi ed un’altra grande prova di regia.

A colpire principalmente in Mickey 17 è infatti il suo valore cromatico, grazie alla fotografia di Darius Khondji (Seven, Bardo, la cronaca falsa di alcune verità e già collaboratore con il regista per Okja). Su un pianeta Terra allo sfascio totale, popolato da persone che non vedono l’ora di andarsene, i colori si fanno pestilenziali, privilegiando tonalità gialle e verdognole per poi estenderle anche a determinati spazi all’interno dell’astronave Arca. Al contrario, su Niflheim, a farla da padrone è la neve, l’indaco e l’azzurro, rappresentando un forte contrasto d’innocenza e vera “purezza” di un ambiente solo apparentemente ostile.

In questa palette cromatica ben marcata, si evidenziano le trovate visive e concettuali dello stesso regista, facendo tenere a mente più di qualche immagine visivamente eccezionale. La fantasia della messa in scena arriva così a restituire su schermo una sorprendente spirale (quella delle persone in fila per lasciare la Terra), oppure il vigoroso richiamo dei c.d. Strisciani ed i loro improvvisi “twists”, con il character design delle creature nato da un uso sublime degli effetti speciali e non solo (la bellezza dell”occhio della madre”).

Ad irrompere nella messa in scena anche le proverbiali note del cinema di Bong Joon-ho, con il compositore Jung Jae-il che ritorna alle stoccate di Parasite per scandire non soltanto il tempo della narrazione, ma anche e soprattutto per imprimere determinate direzioni emotive. Il sonoro è infatti spesso determinante, anche per conferire maggior forza alla macabra ironia del film completamente svincolata. Molte le frecce all’arco di questa commedia grottesca che riesce a strappare diverse risate, facendo leva anche sulle continue morti del protagonista.

Bong Joon-ho non è diventato un maestro a caso, perché c’è violenza e violenza. Mentre le peripezie di Mickey, sbattuto di qua e di là come un pupazzo, sono fortemente ironiche nonostante il sangue, l’amputazione degli arti ecc, il regista riesce comunque a far suscitare ribrezzo e quasi paura in altri momenti più delicati, come appunto la già citata scena della cena d’onore o la violenza sugli animali “alieni”. Nonostante un elevato numero di personaggi, con il regista che torna ai cast hollywoodiani appunto di Snowpiercer e Okja, Mickey 17 si focalizza solo su un quartetto di personaggi.

Toni Collette è sempre sul pezzo, ma la sua prova viene sacrificata di più rispetto alla vita del personaggio protagonista, con Naomi Ackie (Blink Twice) che lascia invece un buon ricordo della sua Nasha. Gli occhi sono ovviamente tutti sul protagonista, a quel Robert Pattinson che continua a collaborare con registi del calibro di David Cronenberg, Robert Eggers, Christopher Nolan ed ora anche il premio Oscar sudcoreano. L’attore torna qui alla fantascienza più pura dopo l’ottima prova in High Life del 2018, diventando effettivamente un “pezzo di carne” nel lasciarsi guidare dal suo nuovo autore di riferimento.

Pattinson viene rimbalzato di qua e di là, sottoposto a determinate prove fisiche ed arrivando anche a sdoppiarsi perfettamente in due personalità ben distinte. Ma la M non è solo quella di Mickey. M come Mark (Ruffalo), M come Marshall, M come Musk, M come Mussolini, il succube del futuro. Subito dopo la sua prova di successo nel Povere Creature! di Yorgos Lanthimos, il grande attore si sottopone ad una nuova prova decisamente grottesca e sopra le righe. Il suo personaggio resta forse quello più convincente del film, incarnando un patetico omuncolo dittatore dagli evidenti rimandi ai protagonisti della Storia passata e presente.

In conclusione, dopo il trionfale successo con Parasite il grande regista Bong Joon-ho torna sul grande schermo riproponendo la fantascienza tanto cara all’autore nel suo ultimo periodo. La carne sul fuoco è davvero molta, spesso non sufficientemente, con non pochi punti critici specialmente nella sceneggiatura che restituiscono una forte sensazione di occasione persa, soprattutto se si tiene a mente la potente filmografia di Bong Joon-ho.

Una patina “hollywoodiana e commerciale” tende quindi ad abbassare il tasso artistico di un’opera che, nonostante tutto, resta uno spettacolo per gli occhi. Gli ottimi interpreti portano infatti avanti una storia anche sentimentale che fa perno su fondamentali questioni sociali e politiche che spingono a a diverse riflessioni, intrattenendosi con una messa in scena eccezionale sullo schermo soprattutto nel suo lato estetico-visivo.

★ ★ ★ ½

Mickey 17 film recensione
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Vittorio Pigini
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Laureato in Giurisprudenza, diplomato in Amministrazione Finanza e Marketing, ma decisamente un Hobbit mancato. Orgogliosamente nerd e da sempre appassionato al mondo cinematografico, con il catartico piacere per la scrittura. Studioso della Settima Arte da autodidatta, con dedizione e soprattutto passione che mi hanno portato a scrivere di cinema e ad avvicinarmi alla regia.