La recensione del film A real pain

Il piacere scolastico di A Real Pain tra dolore del ricordo e libertà di soffrire

Candidato al premio Oscar per il Miglior Attore non Protagonista e per la Miglior Sceneggiatura Originale, arriva nelle nostre sale la commedia drammatica A real pain. L’opera è il secondo film del regista Jesse Eisenberg, il quale figura anche come attore, sceneggiatore e produttore assieme a Emma Stone. Ecco di seguito la recensione di A real pain, il nuovo film con Jesse Eisenberg e Kieran Culkin candidato a 2 premi Oscar.

A Real Pain: la trama del film di e con Jesse Eisenberg

Su idea e sceneggiatura dello stesso regista ed attore protagonista, A real pain è il secondo film di Jesse Eisenberg, attore divenuto particolarmente noto per le sue prove in film come The Social Network e Benvenuti a Zombieland. Successivamente al suo esordio Quando avrai finito di salvare il mondo con Julianne Moore, il regista continua a solcare l’emotività della commedia drammatica.

A real pain è infatti la storia di due cugini statunitensi di origini ebraiche, David e Benji Kaplan, dal carattere molto diverso se non opposto ma legati fin dall’infanzia. La vita ha tuttavia fatto prendere ai due strade differenti ma, dopo tanto tempo, posso finalmente ritrovarsi. L’occasione è quella di partecipare ad un tour in Polonia per visitare i posti in cui la nonna, scomparsa da poco, è nata e cresciuta.

A Real Pain: la trama del film di e con Jesse Eisenberg

A Real Pain, la recensione: l’egoistica libertà di soffrire

Chi vorrebbe piangere sempre?

Giusto in tempo per l’attesissima Notte degli Oscar arriva nei nostri cinema il nuovo film di Jesse Eisenberg, il genietto di The Social Network sempre più lanciato nel campo del cinema indipendente. Il film è infatti la sua seconda regia dopo quella d’esordio del 2022, vestendo in questo caso anche i panni del protagonista. A real pain è infatti un’opera sui suoi personaggi, sulle persone, sull’emotività e le sue dolorose contraddizioni.

<<Un avvertimento: sarà un tour sul dolore>> mette in guardia la guida turistica allo spettatore sul viaggio emotivo e sentimentale di A real pain. Un tour d’interesse, per citare uno dei grandi protagonisti della scorsa edizione dei premi Oscar, in quanto anche il film di Jesse Eisenberg (ovviamente con le dovute differenze e, soprattutto, abbassando notevolmente l’impatto su schermo) riporta alla mente il tema della memoria che qui, come i due cugini protagonisti, si scinde.

Da una parte, infatti, vi è la memoria personale, quella del singolo individuo e delle sue traumatiche esperienze che hanno forgiato la sua vita ed il suo carattere; dall’altra parte vi è quella collettiva, quella dell’individuo calato all’interno di una comunità e la memoria storica. E allora si parlava dei due protagonisti, una cuginanza/fratellanza pronta a ricongiungersi in uno dei momenti traumatici della loro vita (chi più chi meno), ovvero la morte della cara nonna.

Il ricordo di quella che fu un’insegnante di vita spinge i due ad un viaggio nel ricordo delle sue origini, quindi le loro. Gli ebrei americani fanno così ritorno al ghetto di Varsavia, per iniziare il loro personale tour del dolore, con la visita soprattutto al campo di concentramento che, per costruzione visiva e specialmente sonora, lascia che siano semplicemente le immagini a parlare ed a mozzare il fiato. Ma come citato, appunto, A real pain tiene fede al suo titolo e non vuole essere un nuovo film a tema Olocausto, con la memoria storica che appunto viene sfruttata più come pretesto per agganciarsi alla “libertà di soffrire”.

Qui entra in gioco la contraddittorietà del dolore sopracitata, che si lega indissolubilmente ad un senso di colpa esistenziale. È il personaggio di Benji a sottolineare ripetutamente e con brio una mancanza di empatia verso il dolore provato dai loro antenati, cercare di aprire un contatto sentimentale e spiritualmente diretto con loro. L’esperienza che hanno passato le vittime dell’Olocausto è e resta indicibile, con i figli del nuovo millennio che non riescono nemmeno ad immaginare quanto possano essere fortunati (ovviamente l’Olocausto si allarga a tutte le tragedie analoghe, come testimonia l’esperienza del personaggio di Eloge nel film).

La terapia d’urto di Benji spingerebbe quindi a sollecitare e far emergere questa presa di coscienza troppo spesso sopita, per una sensibilità che dovrebbe uscire dalle pagine di storia, dagli aneddoti codificati e dalle imposte giornate commemorative. Tuttavia, con il personaggio di David entra in gioco anche l’altra faccia della medaglia, quell’altra parte della memoria più personale ed introspettiva.

La commemorazione dei defunti, il ricordo di quegli avvenimenti ed in generale del passato più sofferente è sempre più indispensabile, in quanto il passare del tempo tende sempre più ad oscurare quell’esperienza. Ma David, nel suo “piccolo”, deve fare i conti con la sua personale situazione, i suoi difetti fisici e di carattere, oltre soprattutto alla preoccupazione verso un cugino allo sbaraglio che ha tentato il suicidio.

Uno sfogo tra i due che, in qualche modo, farebbe aprire un po’ gli occhi all’emotivo Benji. Non esiste infatti una costrizione sul provare dolore, né che uno sia più “importante” da provare rispetto ad un altro, il “real pain” resta quello rinvigorito dalla sensibilità di una persona e non dovrebbe essere sollecitato od imposto.

Una visione tanto piacevole e quadrata quanto insapore e dimenticabile

È un tour sull’Olocausto, se non è il momento per piangere non so che dirti.

Giocando tra i due temi di memoria individuale e collettiva, nel tour del dolore tra dramma e commedia, il regista Jesse Eisenberg riesce a realizzare un’opera quadrata e precisa ma che fallisce l’obiettivo principale. Sulle note dell’incantevole e malinconica colonna sonora di Fryderyk Chopin, l’autore costruisce una messa in scena giocosa e ben colorata, soprattutto nel rappresentare al meglio tutte le potenzialità paesaggistiche polacche, imprimendo cartoline senza macchia.

Un ritmo sostenuto, nell’arco di appena un’oretta e mezza scarsa, aiuta a supportare un andamento docile e ben calibrato, dove i protagonisti di questo road/buddy-movie danno il meglio di sé. Nell’angolo Blu troviamo il David dello stesso regista Jesse Eisenberg, uomo di New York dal carattere riflessivo, rispettoso quanto intimorito dalla legge, a disagio con le altre persone e tendente a sparire alla vista. Attraverso il suo personaggio, l’attore porta sicuramente equilibrio emotivo, ma il dolore tenuto dentro diventa palpabile, con quel “non detto” che diventa più complicato da restituire allo spettatore rispetto ad un approccio più diretto.

Nel polo opposto, all’angolo Rosso, troviamo invece il Benjamin di un Kieran Culkin lanciatissimo verso il suo primo Oscar, anche soprattutto dopo la conquista del SAG. Al contrario del cugino-fratello, infatti, il suo personaggio di periferia è istintivo, incapace di dominare le proprie emozioni, colui che rapisce l’attenzione e che non si fa troppi problemi a dire quello che pensa, tra cui bellissime frasi di affetto rilasciate con una toccante e delicata semplicità.

Oltre ad una forte chimica tra i due, gli attori principali mettono tutto sé stessi all’interno dei rispettivi personaggi in silente evoluzione fino alla conclusione del film. Infatti, nell’atto finale i “colori” dei due personaggi si invertono quasi di colpo: David (in rosso) diventa quello più emotivo della coppia, dimostra che anche lui riesce a versare una lacrima e schiaffeggia istintivamente il cugino in segno di affetto; Benjamin (in blu), al contrario, diventa particolarmente silenzioso quando la verità gli viene detta in faccia, salutando il cugino all’aeroporto con maggior freddezza e distacco fino al riflessivo e malinconico finale.

Quello dell’inversione, tuttavia, è forse l’unico vero guizzo degno di nota di un film, si ribadisce, preciso e conciso ma che fallisce il suo reale obiettivo, ovvero spingere e fare leva sul lato emotivo. A real pain scorre via piacevolmente, regala qualche risata e le belle interpretazioni dei due attori protagonisti costruiscono personaggi con la quale è semplice entrare in empatia, ma il secondo film di Jesse Eisenberg si limita a questo (che niente, comunque, non è).

A mancare è effettivamente una reale chiusura del cerchio, un confronto maggiormente sentito tra i due e qualche idea che avesse potuto spezzare le piatte regole (narrative ed estetiche) del racconto. A real pain diventa quindi una visione alquanto scolastica e facilmente dimenticabile, rappresentando un grande problema se il fulcro dell’opera è il dolore, specialmente quello del ricordo e della memoria.

★ ★ ★

A real pain recensione: Una visione tanto piacevole e quadrata quanto insapore e dimenticabile
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Vittorio Pigini
v.pigini3@studenti.unimc.it

Laureato in Giurisprudenza, diplomato in Amministrazione Finanza e Marketing, ma decisamente un Hobbit mancato. Orgogliosamente nerd e da sempre appassionato al mondo cinematografico, con il catartico piacere per la scrittura. Studioso della Settima Arte da autodidatta, con dedizione e soprattutto passione che mi hanno portato a scrivere di cinema e ad avvicinarmi alla regia.