31 Ott 2024 31 anni senza Federico Fellini: il maestoso regista è la Storia del Cinema
31 anni senza Federico Fellini, uno dei registi italiani più influenti e celebrati al mondo. Ci lasciava il 31 ottobre del 1993, portando con sé un’epoca irripetibile del cinema. Il regista pilastro della cinematografia mondiale e inesauribile fonte di ispirazione, è stato un artista unico e padrone della Settima Arte. In questo anniversario, ci proponiamo di esplorare i temi cardine che hanno segnato la sua opera, attraversando alcuni dei suoi film più celebri.
31 anni senza Federico Fellini: la magia e il sogno nella prospettiva di un visionario
Federico Fellini, nato a Rimini il 20 gennaio 1920 e scomparso il 31 ottobre 1993, è universalmente considerato uno dei Maestri indiscussi del Cinema. La sua carriera è stata un viaggio nel profondo dell’immaginazione e della psiche umana: uno spazio in cui realtà, sogno e simbolismo si intrecciano in un mosaico unico e inimitabile. 31 anni senza Federico Fellini sono un lungo tempo trascorso senza la sua poetica. È quindi importante per noi, amanti e promotori della Settima Arte, parlarvi del regista italiano più famoso al mondo.
Sin dagli esordi, Fellini ha mostrato, tramite la sua poetica, rappresentazioni potenti dell’animo umano, che hanno contribuito a definire il volto del cinema italiano e mondiale nel periodo post-bellico e ben oltre. Con una filmografia che spazia dai racconti della provincia italiana alle visioni oniriche e sovraccariche di simboli, la sua arte ha saputo rivoluzionare non solo il linguaggio cinematografico, ma anche la percezione della realtà stessa.
Per Fellini, il cinema non era soltanto una forma di intrattenimento o un mestiere: rappresentava, piuttosto, una vera e propria forma di espressione poetica.
Per Fellini, il sogno è molto più di una semplice evasione dalla realtà: è un territorio in cui l’uomo affronta le proprie paure, desideri e contraddizioni. Guido Anselmi (interpretato dal “secolare” Marcello Mastroianni), alter ego del regista, è un uomo in piena crisi artistica ed esistenziale, tormentato dal blocco creativo e dalle pressioni della vita personale. Per Guido, il sogno diventa un rifugio dal peso delle aspettative e dalle responsabilità che non riesce a gestire, ma è anche un luogo in cui la sua coscienza esplora ciò che è sepolto nella sua mente. Attraverso i sogni, Guido riesce a mettere a nudo le proprie insicurezze e desideri più profondi.
Sin dalla scena di apertura, 8½ (1963) introduce lo spettatore nel mondo visionario di Guido, in cui la realtà si dissolve nel surreale. Il film si apre con un sogno claustrofobico: Guido è intrappolato in un ingorgo stradale, circondato da automobili bloccate. Mentre cerca disperatamente di uscire, si ritrova improvvisamente sospeso nel cielo, fluttuando sopra il traffico. Questa immagine onirica, con Guido che galleggia libero e leggero, rappresenta il desiderio di fuga dalle costrizioni della vita e dalle aspettative che lo schiacciano. Ma, proprio nel momento di apparente libertà, viene tirato giù da una corda che lo riporta a terra. Il sogno di libertà si infrange, rivelando il conflitto tra il bisogno di sfuggire e l’impossibilità di liberarsi dalle proprie responsabilità.
La poetica di Fellini in 8½ è caratterizzata da un uso magistrale della visione e del simbolismo. Ogni scena è progettata per offrire un’immagine, un simbolo che è sempre implicito. La narrazione non segue un filo lineare, ma si sviluppa attraverso una serie di episodi e visioni, ognuno dei quali rivela una parte del subconscio del protagonista. Ad esempio, le visioni che Guido ha della sua infanzia non sono semplici flashback: sono ricordi trasfigurati, momenti in cui il passato si mescola con il presente, come accade nella scena in cui ricorda le suore dell’orfanotrofio o l’amore proibito della sua adolescenza. Ogni immagine ha una doppia funzione: da un lato rivela il vissuto del personaggio, dall’altro si trasforma in una metafora.
Il set stesso di 8½ è un caleidoscopio di ambientazioni oniriche, che oscillano tra il reale e l’immaginario. Guido viene mostrato tra donne enigmatiche, in stanze buie o in spazi aperti e indefiniti, circondato da figure che rappresentano una galleria di archetipi: la madre, l’amante, la moglie, la musa. Questi personaggi, pur essendo figure reali nella vita di Guido, assumono nei suoi sogni e nelle sue visioni una dimensione quasi mitica. Fellini non distingue tra realtà e immaginazione, e questa ambiguità crea un’atmosfera in cui ogni immagine e ogni gesto sono sospesi tra il concreto e l’evanescente.
Questa introspezione onirica si manifesta anche nel meraviglioso Giulietta degli spiriti (1965), dove la protagonista, interpretata da Giulietta Masina, affronta una crisi personale legata al tradimento e all’insoddisfazione. In un caleidoscopio di visioni, simboli e personaggi surreali, Giulietta cerca di scoprire la sua vera identità, liberandosi dalle illusioni e dai condizionamenti esterni. La psiche diventa un luogo da esplorare, dove le immagini sono un linguaggio simbolico capace di rivelare il mondo interiore del personaggio.
31 anni senza Federico Fellini: il mito decadente della borghesia
Negli ultimi anni, sui social è diventato sempre più comune condividere i piccoli momenti della nostra quotidianità, mascherandoli con un approccio pseudo-contemplativo: due vecchietti seduti su una panchina, il caffè al bar, i cruciverba in estate; a tutti questi piccoli istanti della vita viene aggiunto in didascalia la definizione di “dolce vita”, meglio ancora se “italiana”. Ebbene, al netto del riappropriamento assolutamente improprio del termine, è deleterio notare come l’opera maestosa di Fellini venga accostata senza alcuna disamina a questa filosofia di vita. Con questo articolo intendiamo – speriamo – intraprendere uno sprono verso chi sconosce uno dei temi fondamentali, se non addirittura IL tema fondamentale per Fellini: la decadenza della classe borghese. In altre parole, La dolce vita.
Fellini esplora spesso la superficialità e l’ipocrisia della società borghese, smascherandone il vuoto morale e l’apparente bellezza. In La dolce vita (1960), Fellini fa una critica alla cultura dell’apparenza e alla perdita dei valori, rappresentando la borghesia come un mondo ingabbiato nella propria vanità e superficialità.
Ambientato a Roma, racconta sette giorni nella vita di Marcello Rubini, un giornalista di cronaca mondana interpretato dal Viscontiniano Marcello Mastroianni, che vaga per la città alla ricerca di storie di celebrità e scandali, ma anche, inconsapevolmente, di un significato più profondo per la sua vita.
Una statua di Cristo, sospesa da un elicottero, sorvola Roma diretta verso il Vaticano. È una scena paradossale e straniante, quasi a voler suggerire che la città, intrappolata in un’apparenza vuota, abbia perso il contatto con la propria anima e con qualsiasi tipo di spiritualità.
Il personaggio di Marcello è, immerso in un mondo di gossip, feste e celebrità, profondamente insoddisfazione. Egli osserva, con un distacco quasi cinico, le vite delle persone che frequenta, ma allo stesso tempo è incapace di sottrarsi alla stessa decadenza che disprezza. Marcello è il simbolo di una generazione che, in assenza di ideali, si lascia trascinare in una ricerca sterile di felicità attraverso il divertimento, il denaro e il sesso. “Ah, ai miei tempi era meglio di oggi!”. Ne siamo ancora sicuri? Ogni tentativo di trovare per Marcello un significato autentico risulta vano e fallimentare, perché la vita che conduce è priva di una direzione reale. Il film è disponibile integralmente su Youtube, cliccando qui.
31 anni senza Federico Fellini: un regista autobiografico entrato nell’immaginario italiano
In Amarcord (1973), una delle sue opere più autobiografiche, il regista fa un ritratto corale della sua infanzia in una Rimini reinventata, mostrando l’influenza di un mondo di piccole credenze e convenzioni sociali, tipiche della provincia italiana degli anni ’30. Attraverso una serie di episodi vividi e ironici, Fellini crea un mosaico di personaggi e situazioni che sfidano apertamente la moralità borghese, tra ipocrisia e pregiudizi. Questa critica non è mai cinica, ma piuttosto un atto di osservazione compassionevole e ironica, in cui l’assurdità delle convenzioni sociali viene smascherata.
È la memoria, quindi, ad essere intesa come viaggio intimo e soggettivo. In Amarcord (film completo su Youtube se clicchi qui), la rievocazione della sua infanzia assume il carattere di un sogno ad occhi aperti, dove i confini tra ricordo e invenzione si dissolvono. Fellini crea una realtà che è memoria, distorta e magnificata, come se l’infanzia fosse un luogo da cui attingere per comprendere il presente.
Lo stesso amore che mette nei personaggi – belli tondi – di Amarcord, Fellini se lo porta dietro da La strada (1954), uno dei suoi film più commoventi, in cui l’ingenua Gelsomina (Giulietta Masina) e il burbero Zampanò (Anthony Quinn) intraprendono un viaggio che è una metafora della sofferenza e della redenzione. La dimensione grottesca del film neo 70enne (per saperne di più, clicca qui) si fonde qui con una profonda umanità. La compassione di Fellini emerge in ogni inquadratura, restituendo un’idea di cinema che è in primo luogo un atto d’amore verso i propri personaggi.
Infine, anche in Roma (1972) e Fellini Satyricon (1969), il regista racconta della sua vita nella capitale italiana attraverso i propri occhi, alternando episodi autobiografici e sequenze surreali. La Roma di Fellini è una città vissuta, amata, ma soprattutto ricordata, dove ogni immagine è pervasa da una nostalgia che si trasforma in una poesia visiva. Una Roma diversa, quasi arcaica agli occhi di oggi. La Roma di Satyricon viene reinterpretata in chiave grottesca, diventando il simbolo di un’umanità persa e deformata, in cui Fellini esplora la decadenza, edonismo e disconnessione spirituale, mostrando l’antichità non come un passato lontano ma come uno specchio, capace di riflettere le ombre della modernità. Fellini, ci manchi, e siamo sicuri che per la Roma odierna vale lo stesso.
Volendo chiudere con il Fellini più realistico e giocoso, nel 1953 esce il cult I vitelloni (1953), un racconto nostalgico sulle vite di cinque giovani di provincia, sospesi tra i sogni di gloria e l’incapacità di realizzarli. Ambientato nella sua città natale di Rimini, il film è un ritratto affettuoso ma anche critico della gioventù italiana degli anni ’50. Attraverso le vicende di questi vitelloni — quante ne hai inventate, Federico? — Fellini traccia un quadro autentico della giovinezza e dei compromessi della vita adulta.