
04 Giu 2025 Aragoste a Manhattan è l’anti-film sulla cucina
Dopo l’opera sperimentale di finzione e documentario (Una Película de policías), Alonso Ruizpalacios torna alla regia con Aragoste a Manhattan (La cocina), ispirato alla pièce The Kitchen di Arnold Wesker. L’opera regala una visione polifonica e cruda della realtà urbana. Forte dei successi precedenti, dal premio per la miglior opera prima a Berlino con Güeros all’Orso d’argento per la miglior sceneggiatura – Ruizpalacios gira un (anti)film sulla cucina. Distribuito da Teodora Film, il film è in sala dal 5 giugno 2025. Leggi l’articolo per saperne di più.
Aragoste a Manhattan, trama del film di Alonso Ruizpalacios
Estela, una giovane ragazza, lascia il Messico per approdare a New York alla ricerca di Pedro, amico d’infanzia ormai adulto e trasferitosi da tempo negli Stati Uniti. Su indicazione della madre di Pedro, Estela si presenta al The Grill, un ristorante caotico e decadente nel cuore di Times Square, dove Pedro (Raul Briones) lavora come cuoco.
Dietro i fornelli, Pedro si barcamena tra turni massacranti. Tra uno scontro e una battuta, coltiva un legame tormentato con Julia (Rooney Mara), cameriera americana incinta del loro figlio, determinata ad abortire nonostante il dolore che l’accompagna. Allo stesso tempo, Pedro si aggrappa alla speranza che Rashid, il severo gestore del locale, possa aiutarlo a regolarizzare la sua posizione con un permesso di soggiorno.
Si scopre di un ammanco di ottocento dollari dalla cassa della sera precedente. Il sospetto serpeggia, mentre Luis, braccio destro del boss, avvia un’indagine informale che getta l’intero staff in un clima di paranoia. Sullo sfondo, Estela osserva, silenziosa ma partecipe del microcosmo di una città che racchiude l’Occidente.

Aragoste a Manhattan, la recensione: l’America non è una nazione
Con Aragoste a Manhattan, il regista Alonso Ruizpalacios porta lo spettatore attorno e dentro il microcosmo di un ristorante di Times Square, il The Grill.
Protagonista è la giovane Estela, arrivata dal Messico in cerca di un impiego e di Pedro, amico d’infanzia. L’ambientazione de La cocina (così recita il titolo originale) è il luogo in cui cui il sistema brutale e gerarchico ultra capitalista regna con le sue logiche di sfruttamento e alienazione. Dai grandangoli ai piani sequenza immersivi, dal formato che si espande e si restringe in base alla temperatura emotiva delle scene, fino a una macchina da presa che si emancipa dai personaggi, li precede o li abbandona, il film porta in scena una cucina che, proprio come l’America (che, come dice Pedro “non è una nazione”) e impossibile identificare a pieno in una sola e unica identità.
Lo spettatore viene destabilizzato sin da subito: l’incipit è una dichiarazione poetica, narrata da un clochard a Estela, che non comprende l’inglese. L’ingresso nel film è quindi ostico, come se l’autore volesse negare la facile adesione emotiva al “grande racconto” del cinema. È un avvertimento politico: attenzione a non farsi ingannare dalla favola (l’American dream), perché qui si parla di corpi che lavorano. Tutti i personaggi, da Pedro alla cameriera Julia, dal boss Rashid al subalterno Luis, sono incastrati in un ruolo nella società che li costringe a collocarsi gerarchicamente in alto o in basso in relazione alla persona che si trovano davanti.
In un contesto audiovisivo che negli ultimi anni ha eletto la cucina a nuovo campo di battaglia esistenziale (The Bear), Aragoste a Manhattan si distingue per la sua capacità di parlare di Times Square, di New York, anzi, dell’America continentale. In uno spazio così piccolo e collettivo, dove l’estetica e l’etica della brigata del The Grill lavora per restare a galla. L’indagine su un ammanco diventa pretesto – MacGuffin – per parlare di razzismo, di America come sogno infranto, di identità di un Paese nato dalla stessa frammentazione che adesso vuole essere rigettata ed eliminata. Pedro, interpretato con bravura mastodontica da Raúl Briones, è un uomo che non ha un sogno da inseguire, ma una speranza a cui aggrapparsi, il figlio.

Aragoste a Manhattan, la recensione: The world is a place of business
Con la citazione a David Thoreau si apre verbalmente Aragoste a Manhattan, e si chiude, metaforicamente parlando, riprendendo le stesse parole e mettendole sullo schermo. L’eccezionalità del film, dietro un bianco e nero elegante e contrastato della fotografia di Juan Pablo Ramírez, insieme alla colonna sonora poliritmica di Tomás Barreiro, accompagna la sporca urbanità con i tocchi jazz, cori, che portano all’enigmatico atto conclusivo.
Se l’incontro di Estela con la cocina si avvia infatti non casualmente con un carismatico cuoco africano, Nonzo, che la introduce alle strette e precise postazioni di ogni metro quadrato della cucina, il film continua dilatando la storia con ritmi alternati: momenti di frenesia insieme a improvvise sospensioni a luci fredde, in cui il film si permette aperture malinconiche, come nella cella frigorifera dove Pedro e Julia possono abbandonarsi a una fugace liberazione, della (e nella) carne.
Il film si concede una pausa, una parte in cui i personaggi si confrontano. Ma i loro sogni restano desideri, mentre il treno della storia – o della metropolitana newyorchese – continua a correre su binari prestabiliti. Con il mirabile montaggio di Yibrán Asuad, la storia va avanti, rischiando a volte la dispersione, ma trovando la sua instabile coerenza nella sua rappresentazione: perché Aragoste a Manhattan è, in fondo, un film sull’impossibilità di fermarsi, sul bisogno di muoversi per sopravvivere. Sopravvivere in un mondo che, come ci viene detto sin dall’inizio, is a place of business.
In conclusione, Aragoste a Manhattan si chiude come si è aperto: è un film che soffoca e abbraccia, che mette la cruda realtà in faccia allo spettatore. Racconta un’umanità sconfitta, consapevole di aver perso, eppure non del tutto priva di speranza. Come le aragoste un tempo considerate cibo dei poveri, anche la vita nel sottosuolo del The Grill potrebbe un giorno acquisire un senso. Il film mostra con lucidità e amarezza l’altro volto del sogno americano: un sistema costruito sulla fatica invisibile di chi è socialmente più in basso.
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