La recensione del film Civil War di Alex Garland

Civil War: il distopico (?) war-movie di Alex Garland

Distribuito in Italia dal 18 aprile 2024, Civil War è il nuovo film scritto e diretto dal regista londinese Alex Garland, con protagonista principale Kirsten Dunst.

Civil War, la recensione: la trama del film di Alex Garland

Il nuovo film dell’autore di 28 giorni dopo ed Annientamento viene ambientato in un futuro prossimo ed indeterminato, che vede gli Stati Uniti affrontare un logorante conflitto interno a causa della prolificazione di fazioni in continuo contrasto tra loro. Mentre Civil War viene inaugurato dal tentativo del Presidente di rilasciare un rasserenante comunicato stampa, il Paese vive infatti la drammatica e sanguinosa rivolta secessionista delle c.d. Western Forces, con i gruppi armati degli Stati dissidenti intenti ad arrivare alla Casa Bianca per ottenere un radicale cambiamento.

Protagonista di questo film dallo scenario apocalittico diventa così una squadra di giornalisti, composta dalla stimata reporter Lee Smith, i suoi colleghi Joel e Sammy, oltre che dalla “new entry” Jessie, giovane fotografa desiderosa di seguire le orme della sua eroina. In Civil War si segue appunto la missione di questo gruppo di reporter che, con il desiderio di documentare il momento esatto dell’assalto alla Casa Bianca ed ottenere così il servizio del secolo con le dichiarazioni di un Presidente inevitabilmente sconfitto, attraversa il Paese e mette a rischio costantemente la vita dei suoi membri.

Recensione film Alex Garland Civil War

Civil War, la recensione: il distopico cinema verità di Garland

Che genere di americano sei?

Anche solo le prime immagini del trailer, del nuovo film scritto e diretto da Alex Garland, farebbero già pensare ad un’opera fantascientifica, distopica, che tratta di una realtà similare ma non coincidente con quella che viviamo giorno per giorno. Banale specificarlo ma, purtroppo, così non è. Civil War del regista britannico ha conosciuto la sua genesi durante il periodo pandemico, prima dell’uscita del suo ultimo film Men nel 2022 e con il quale, a detta sempre di Alex Garland, condividerebbe un profondo legame. L’intento fu dunque di rappresentare su schermo la radicale spaccatura di un Paese, come quello a “stelle e strisce”, soprattutto in merito agli effetti della pandemia in termini politici, sociali e morali, avendo in mente la desolazione nelle strade e la struggente guerra interna che si stava vivendo contro un nemico invisibile. Poi avvenne l’impensabile, l’ormai celeberrimo assalto a Capitol Hill il 6 gennaio 2021 e di colpo, quella “lontana” distopia del conflitto armato, inizia pericolosamente ad assumere connotati decisamente più nitidi e vicini ai giorni nostri.

Nell’esasperata (?) radiografia che Garland immortala su schermo lo spettatore assiste ad un vero e proprio film dell’orrore, non dissimile ad altre laceranti operazioni filmiche (come ad esempio il recente Nuevo Orden di Michel Franco), che mostra i drammatici effetti del conflitto specialmente se interno ai propri confini. L’inciviltà della guerra civile, il caos più totale ed il collasso del sistema, Alex Garland restituisce tutto ciò allo spettatore attraverso una visione a tutti gli effetti disarmante. L’impossibilità di fidarsi del proprio vicino, quando anche fare spesa o semplicemente benzina diventa un atto di fede, non sapendo cosa potrà accadere dietro l’angolo; militari sparsi per ogni dove che si appostano a mo’ di cecchino, non sapendo nemmeno a chi si sta sparando ma solo per non finire uccisi; l’anarchia più selvaggia e crudele che accatasta fosse comuni per una risposta data sbagliata. L’insensatezza della guerra ripresa a gran voce dal regista che catapulta lo spettatore immediatamente al centro dell’azione, senza concedere alcun appiglio affinché si possa provare a giustificare quello a cui sta assistendo.

A livello narrativo, infatti, vengono concessi pochissimi elementi informativi allo spettatore: la deriva autoritaria del governo, lo scioglimento dell’FBI, gli schieramenti mostrati indirettamente, le stesse motivazioni del conflitto sono annebbiate. In questo “cinema verità” che è Civil War, la guerra non poteva che essere un totale caos e, quando tale, risulta indecifrabile, insensato, pur facendo pesare tutti i suoi drammatici effetti. Ma quando il caos è dilagante ci sarebbe solo un messaggio da dare alla Nazione: tutto brucia! Eppure si continua ad offrire messaggi stampa fasulli, a mettere la testa sotto la sabbia cercando di evitare il problema isolandosi il più possibile e, perché no, una fattoria in una remota campagna diventa l’unica soluzione. Lo stesso regista resta travolto dall’ondata di morte e distruzione di un futuro non così distante quanto si possa pensare, cercando con quest’opera di scongiurare l’apocalittico scenario in vista con un assordante richiamo d’allarme.

Lo fa attraverso il mezzo della fotografia, quale documento che immortala la storia e che offre un ricordo inestinguibile per le prossime generazioni. In Civil War la “fotografia” è quella di un’America che continua a vivere e ad alimentarsi sui fiumi di sangue che fa sgorgare, in casa o in trasferta. I protagonisti si lanciano così su una vera Highway to Hell, in un’ambientazione atemporale, distopica, futura e passata, che inscena un mondo – quello degli U.S.A. – da sempre in conflitto fin dalla sua nascita, cambiando lo scontro sudisti/nordisti con le Forze Occidentali. Il cinema statunitense non perde infatti occasione di mostrare questa scomoda e lacerante verità, quella della nascita di una Nazione – il Paese delle libertà e delle opportunità – sulla guerra, sul sangue e sulla frattura sociale, da ultimo il Killers of the flower moon di Martin Scorsese. Il regista britannico torna così sull’argomento e rincara la dose, mostrando come (alla fine) nessuno possa davvero sottrarsi dalla colpa di essere partecipe di quest’equazione, siano democratici, repubblicani, autorità governative, popolo o stampa.

Civil War, la recensione: la totale sconfitta della moralità nell’apatia del freddo obiettivo

Questo non è un posto per noi, ci saremmo annoiati.

Denunciando così gli artefici del conflitto, radiografando cosa si nasconde nelle profondità della storia statunitense e cosa questa sia destinata a rivivere, Alex Garland nel suo Civil War si addentra tuttavia in un percorso decisamente “scomodo”. La principale caratteristica, che rende questo film un’opera dirompente ed inevitabilmente importante dal punto di vista storico, è proprio la sua distribuzione cinematografica a pochi mesi proprio dalle elezioni americane. Se la ferma e generale condanna del conflitto e della natura guerrafondaia del popolo americano medio sia diretta ed evidente, decisamente più ambigua non è infatti solo l’indirizzamento politico dell’opera, ma anche e soprattutto la descrizione degli “eroici” personaggi protagonisti.

Dal primo punto di vista non sembrerebbe tanto complicato ricollegare il Presidente interpretato da Nick Offerman all’ex (?) Capo di Stato Donald Trump, sebbene le suggerite derive autoritarie possano essere attribuite ad un personaggio astratto per ogni occasione (impossibile infatti tenere fuori dalla mente anche la recente “rielezione” di Vladimir Putin). Ebbene, se la mancanza di elementi a sostegno della narrazione acquista fascino nel momento in cui deve essere rappresentata l’insensatezza della guerra, questa assume rilievi decisamente più spigolosi per quanto riguarda gli effetti politici che Civil War potrebbe benissimo coinvolgere. Garland, infatti, tace su molti dei fattori che avrebbero portato alla secessione, alla rivolta armata per ribaltare il potere costituito, portando inevitabilmente lo spettatore a chiedersi: quando una rivoluzione armata e sanguinaria è considerabile “giusta”? Le forze governative sparano sulla folla in risposta alla nascita del conflitto armato o per un’arbitraria decisione da politica del terrore? Perché ad essere protagonisti della rivolta sono proprio quegli Stati e non altri?

Assieme a molti altri, questi sono solo alcuni degli interrogativi che lo spettatore potrebbe tranquillamente tenere in testa durante la visione, con le risposte che – se non proprio assenti – vengono indicizzate con qualche elemento da ricomporre in un certo ordine ma, in una situazione di questo genere, anche la verità può essere facilmente distorta. Nella scelta di rendere protagonista una squadra di giornalisti, infatti, Garland non si tira indietro sulla tematica della responsabilità dello sguardo, scindendo ed unendo testimonianza documentaristica e partecipazione attiva e passiva a quanto si assiste. In Civil War non vi è un’idilliaca rappresentazione degli uomini e donne dell’informazione, con reporter che appunto hanno <<perso la fede nella forza del giornalismo>>, portando così ad un pericoloso vortice mediatico. Tenendo sempre a mente come il progetto del film nasca soprattutto in periodo pandemico (l’abisso dell’informazione nel bombardamento di fake news), le forze giornalistiche incarnate nel film rappresentano una generazione fredda e disillusa, che prova a portare sulla propria strada anche quelle nuove ed emozionate, in una totale sconfitta della moralità attraverso l’apatia del freddo obiettivo.

Quando la guerra diventa un (video)gioco al massacro, un semplice Risiko o un Call of Duty, si rimane increduli che appunto qualcuno voglia rimanere estraneo a questo squallore e scegliere di vivere in una fattoria, fingendo che sia tutto bello come sempre. Mass media che costringono a guardare e colpevolizzano chi non guarda, anche se le informazioni e i documenti da sfogliare abbiano ormai perso la loro vitale caratteristica di rappresentare una “necessaria” verità. In Civil War viene presentata così una squadra di eroi alquanto ambigua, coinvolti in una missione a senso unico, ovvero registrare e catturare i momenti salienti dei terreni di battaglia senza nemmeno avere la certezza che quelle foto, quelle testimonianze, saranno mai pubblicate o viste da qualcuno se non da loro stessi nel processo di scarto. Tutto per riuscire a strappare il “servizio del secolo”, una futile dichiarazione, il momento immortalato col trofeo, pur di mantenere integro un egoistico senso di appagamento dato dalla cannibalizzazione delle immagini da macinare nel proprio rullino. Un terreno scivoloso per quanto riguarda la nobiltà dell’informazione che, in questa direzione, alimenterebbe il fotografare le fiamme quando tutto brucia nel caos, invece di azionarsi con acqua ed estintore. E dunque, quando il giornalismo, i documenti, le testimonianze e l’informazione possono essere considerati “giusti e necessari”?

Civil War recensione film Alex Garland

Civil War, la recensione: un war-movie crudo e spettacolare vissuto in prima persona

Noi non chiediamo. Noi registriamo perché altro chiedono.

Allo stesso modo come per la rappresentazione bellica, Garland non offre risposte facili nemmeno in questo caso, “nascondendosi” in maniera intelligente ed aprendo così inevitabilmente il fianco. Discorso a parte per quanto riguarda l’esperienza cinematografica regalata da Civil War, con una visione potentissima e coinvolgente. Come non mai l’indipendente A24 mostra i muscoli del blockbuster, mettendo a disposizione del regista britannico un importante budget per cercare di ricostruire al meglio un’opera cruda e “spettacolare” come in questo caso. Grazie soprattutto ad uno straordinario lavoro sulla fotografia, curata dallo stretto collaboratore Rob Hardy, e a quello forse ancor maggiore sul montaggio di Jake Roberts, Civil War permette allo spettatore di immergersi dall’inizio alla fine al centro dell’azione, tra acrobatiche panoramiche e gli innumerevoli momenti vissuti in modo ravvicinato dagli stessi protagonisti.

Un cinema verità appunto, dove lo straordinario diviene ordinario e viceversa, che incanala un’azione brutale e fisica con uno stile simil-documentaristico, rafforzato dalla brillante idea dell’uso degli scatti fotografici per un film che parla per potenti immagini e non poteva essere altrimenti. Un adrenalinico war-movie estremamente dinamico nella sua stabilità, sia a piedi per le insanguinate strade e piazze, oppure a bordo del mezzo di lavoro che sfreccia sulle vie del road-movie. Effetti speciali estremamente efficaci e realistici, per una visione spettacolare che vive soprattutto del suo comparto sonoro. Ben Salisbury e Geoff Barrow compongono una colonna sonora che sfrutta patriottiche note country (dal testo spesso incisivo) per sopprimere le urla e i richiami di morte, dando vitalità anche alla già citata ambiguità del racconto. Ma, ad essere ancora più incisive, sono appunto le scelte del reparto sonoro che registrano sì l’ininterrotto fragore degli spari che illuminano la notte, ma permettono anche ai click della macchina fotografica di trovare il rispettivo spazio nelle esplosioni della guerra, regalando intoccabili momenti ed istantanee di verità.

Citato, ma non ancora affrontato, è poi lo stesso “ambiguo” cast di Civil War, capitanato da una Kristen Dunst sugli scudi. Inseparabilmente armata di fotocamera, proprio mezzo di lavoro ed ormai sua seconda pelle, l’attrice candidata premio Oscar per Il potere del cane vince nel presentare la stanchezza di vivere del suo personaggio, annichilito da quanto orrore immortalato attraverso i propri mezzi del mestiere, con una prova funzionalmente da automa, sebbene con sprazzi di sincera umanità. Mentre poi i suoi colleghi se la cavano egregiamente, Wagner Moura su tutti, a rapire completamente la scena è però suo marito nella vita reale. Nonostante la breve apparizione, attraverso la psicologia e l’espressività conferita al suo personaggio Jesse Plemons regala forse il momento più potente dell’intero film.

Comparto tecnico eccezionale ed interpretazioni di alto profilo non riescono tuttavia a nascondere alcune “sbavature” soprattutto nella costruzione narrativa del film. Potrebbero esserci diversi esempi (comunque di numero ristretto e non determinanti per influenzare troppo negativamente sul giudizio del film), come ad esempio l’improvvisato inseguimento a metà visione, il quale poteva sicuramente essere costruito meglio, oppure la forse eccessiva frettolosità del momento più importante del racconto, ovvero la presa della Casa Bianca. Per quanto scenicamente efficace e funzionale soprattutto in termini narrativi, la dipartita di Lee risulta eccessivamente teatrale, preventivata e che si aggiunge ad una secca chiusura della storia dei personaggi in scena.

In conclusione, Civil War porta una feroce condanna alla guerra e alla conflittualità in generale, interrogando sulla storia e lo stato attuale degli U.S.A., in modo forse non originale ma sicuramente dannatamente efficace. Soprattutto con l’uscita del film a pochi mesi dalle elezioni americane, è da considerare tuttavia come il film mostri il fianco per quanto riguarda il suo indirizzo politico e soprattutto il ruolo dei mass media in questa equazione, mostrando le sue luci ed ombre ma – in un mix tra intelligenza e furbizia – non prendendo veramente una presa di posizione in tal senso. Indiscutibile invece il comparto tecnico del film, per un’esperienza cinematografica dirompente e che porta lo spettatore al centro dell’azione.

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Vittorio Pigini
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Laureato in Giurisprudenza, diplomato in Amministrazione Finanza e Marketing, ma decisamente un Hobbit mancato. Orgogliosamente nerd e da sempre appassionato al mondo cinematografico, con il catartico piacere per la scrittura. Studioso della Settima Arte da autodidatta, con dedizione e soprattutto passione che mi hanno portato a scrivere di cinema e ad avvicinarmi alla regia.

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