16 Ott 2022 Gli Orsi Non Esistono: La recensione del film vincitore del premio speciale della giuria a Venezia 79!
Il regista iraniano Jafar Panahi raccoglie il Premio speciale della giuria al Festival di Venezia 2022 con questa ultima fatica creativa, straordinario sguardo artistico sulla situazione di una nazione e un popolo in bilico tra tradizione e superstizione, tra speranza e oscurantismo, tra amore e morte.
Ogni cosa a suo tempo, permettetemi di inquadrare brevemente l’artista.
Allievo del maestro Abbas Kiarostami, Panahi si fa portavoce di un cinema intimamente rivolto ai suoi connazionali: l’occhio demiurgico vede attraverso la coltre della censura ideologica, per andare a flagellare ferocemente le profonde contraddizioni iraniane.
Arrestato nel 2010 e condannato a sei anni di carcere per propaganda contro il governo, con l’ulteriore veto a dirigere produzioni maggiori o lasciare il paese per altri 20 anni, i film di Panahi riescono fortunatamente ad evitare il serratissimo giogo iraniano per raggiungere il circuito internazionali con i più disparati mezzi di fortuna. Il panorama spettatoriale ovviamente ringrazia, avendo la possibilità di accogliere le profonde grida di protesta messe in scena da Panahi e dai suoi “eroi” comuni: donne che si fanno carico di diritti defraudati, bambini le cui voci non vengono ascoltate, disabili invisibili per la società, usanze che si mescolano con i più biechi deliri superstiziosi.
Dopo questa più che doverosa introduzione, parliamo ora dell’ultimo lavoro di Panahi: ci troviamo in una non meglio precisata città al confine turco-iraniano, la telecamera riprende una coppia all’esterno di un ristorante. Lui porge un passaporto a lei,
un passaporto falso che le servirà per riuscire a fuggire, emigrare verso un futuro migliore. Improvvisamente una voce fuori campo esclama: “STOP” e, con un magistrale quanto semplicissimo zoom-out, comprendiamo che la scena appena vista è in realtà ciò che il regista stesso sta guardando sul monitor di un PC.
Panahi entra in scena, regista e protagonista al contempo: è confinato nel villaggio di Jabbar, impossibilitato a coordinare in loco la lavorazione del suo ultimo film, perché la censura di regime l’ha ostracizzato.
La produzione a cui sta lavorando parla di un amore ostacolato, di un fugace anelito di libertà che si scontra con l’impossibilità di evadere da una realtà troppo opprimente.
Una fuga fuorilegge, per ambire a un futuro libero da oppressioni ideologiche, da ataviche tradizioni superate, reazionarie e contemporaneamente dogmatiche. Parallelamente la voglia di evasione tenta e stuzzica pure la mente del regista/attore, quando la notte si avvicina al confine turco per cercare una ricezione wi-fi migliore.
La vita nel villaggio è semplice, essenziale, dominata da una profonda devozione nelle usanze locali, per cui Panahi si trova a voler esprimere la propria vena creatrice immortalando scene di quotidianità. È proprio uno di questi scatti “rubati” a causare lo stravolgimento dello status quo, nel villaggio non si vocifera d’altro: il “signor Panahi” ha inavvertitamente fotografato una coppia di innamorati illecita, una ragazza promessa sposa ad un altro giovane (sin dalla sua nascita) colta nell’atto di tradire l’inviolabile vincolo che li lega.
Ne scaturisce un vero e proprio processo, per cui a Panahi si chiederà di giurare sul sacro Corano di non possedere alcuna prova di questa illegittima relazione amorosa. La permanenza nell’agreste realtà di Jabbar è però inevitabilmente compromessa e la situazione non potrà ormai fare altro che degenerare, similarmente al film diretto da Panahi in cui un amore
impossibilitato a concretizzarsi troverà la sua apoteosi nell’annichilimento delle sue componenti.
Non voglio addentrarmi troppo nel particolareggiare la trama di questo ennesimo gioiello di un regista a cui la gogna mediatica ha da troppo tempo cercato di impedire la naturale espressione artistica.
Gli orsi non esistono vive di rimandi, di allusioni (neanche fin troppo mascherate) alla situazione politica, ideologica, sociale e culturale presente in uno spaccato di Iran, che si fa manifesto per contrastare ogni forma di deriva autoritaria, di oppressione liberticida, di oscurantismo dittatoriale.
Panahi incarica il suo cinema di farsi portabandiera di questo afflato di emancipazione, di abbracciare le disperate grida di aiuto di donne private della possibilità di amare liberamente (tematica presente anche ne “Il cerchio”), comunità rurali le cui usanze sfociano nelle più oscure superstizioni (vedasi anche “Tre volti”), tradizioni di matrimoni combinati, giuramenti inscindibili, rituali ancestrali che abbracciano un cieco fanatismo religioso.
Così quando l’illusoria pacifica realtà viene scossa da un evento anticonformista bisogna riprendere in mano la situazione, instaurando un finto processo volto a placare gli animi pronti a deflagrare in un burrascoso vortice di violenza. Finto, perché a Panahi viene chiesto di giurare sul Corano anche a costo di dire il falso, pur di “metterci una pietra sopra”, per far in modo che “gli orsi tornino ad esistere”.
Orsi ideologici, fittizi spauracchi presenti solo per tenere a freno ogni velleità liberale, terrificanti convitati di pietra che gravitano su una popolazione oppressa da un giogo culturale inestricabile. “Gli orsi non esistono” ma la paura sì. La paura e la disperazione danno potere alle autorità. Il terrore ideologico opprime le menti
delle persone e le uniforma, le appiattisce, le plasma in un unicum molto più semplice da controllare.
Per il regista (così come per il protagonista) l’unica via di uscita, seppur momentanea, è il cinema. Immagini che si ergono a portatrici di verità, ambasciatrici super partes necessarie per fare luce sull’oscurità ultraconservatrice di un’autorità retrograda. Cinema che abbraccia la voglia di fuggire, liberarsi dall’oppressione, voglia di amare liberamente, desiderio di essere visti, uditi, compresi, integrati, accettati. Cinema che si fa vita.
In fondo qui è tutta rinchiusa la cinematografia di Panahi, in questo intimo, delicato e potentissimo estro vitale, in questo sapiente chiaroscuro che permea le sue inquadrature. Perché dove c’è luce coesiste necessariamente anche l’ombra e, nella fattispecie, dove si anela a un desiderio sublime di vita, si deve concretizzare anche un funesto messaggio di morte.
Così il regista/protagonista assiste inerme allo stravolgimento contemporaneo della lavorazione del suo film (in cui gli attori usciranno dalla parte per tornare ad essere uomini e donne oppressi, fino alle estreme conseguenze finali), e della semplice comunità di Jabbar, in cui la tradizione impone che solo il sangue possa mondare un’onta morale.
Paura, terrore che sprona alla fuga, disperazione che suggerisce di elidere, guardare altrove e così fa il regista, momentaneamente sconvolto dall’impossibilità di indirizzare gli eventi.
Ma Panahi si ferma, decide nonostante tutto di restare, di continuare a riprendere.
E per questo non possiamo fare altro che ringraziarlo: perché a discapito della propria libertà, i suoi film continuano a raggiungerci, continuano a sfidare la censura, continuano a sfuggire agli orsi.
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