Recensione film Scarface di Brian De Palma con Al Pacino

Scarface: il mito del remake di Brian De Palma

Uscito nelle sale statunitensi nel 1983, Scarface diretto da Brian De Palma è il remake dell’omonima grande opera di Howard Hawks di mezzo secolo prima, con un titanico Al Pacino nel ruolo dell’iconico protagonista.

Scarface, la trama del film di Brian De Palma

Omaggiando Howard Hawks direttamente alla chiusura del film, Scarface del 1983 è il remake diretto da Brian De Palma proprio di una delle pietra miliare del gangster-movie, che nel 1932 portò sul grande schermo un personaggio forte e spigoloso, ispirato alle gesta di Al Capone ed interpretato brillantemente da Paul Muni. La nuova versione degli anni ’80, con protagonista Al Pacino, vede l’ascesa nel mondo della criminalità organizzata di Tony Montana, giovane avanzo di galera cubano estremamente ambizioso e determinato. Gli anni sono quelli della prolificazione dei cartelli della droga per le lussuose e sudice strade di Miami, dove Tony inizierà a muovere i suoi primi passi – assieme all’inseparabile compare Manny – verso i ruoli di potere dell’impero della droga.

Scarface, la recensione: il mito sulla strada Chicago-Miami

Prima di immergersi nel dettaglio del film di Brian De Palma, urge presentare il quadro di sviluppo che ha portato alla sua realizzazione. Come accennato, il cult degli anni ’80 è una nuova versione della storia già portata sullo schermo nel 1932 dal grande cineasta Howard Hawks, che inevitabilmente ambienta la sua narrazione nella Chicago durante i delicati anni del proibizionismo. L’idea del remake venne in mente direttamente ad Al Pacino, proprio quando vide il capolavoro interpretato da Paul Muni, il quale iniziò a mettere in moto la macchina produttiva per fargli vedere la luce. Tra i registi che, inizialmente, vennero scelti per condurre lo sviluppo del nuovo Scarface vi fu anche Sidney Lumet (già regista per Pacino in Serpico e Quel pomeriggio di un giorno da cani) che, vista anche la sua importante filmografia nel mette sotto i riflettori delicati temi legati alla storia socio-politica statunitense, ebbe l’idea di rinnovare la narrazione del film di Howard Hawks.

 

La nuova location di Scarface sarebbe dovuta essere così il periodo del c.d. “Cocaine Cowboy Era“, ovvero quello della rapida escalation dell’industria criminale della droga tra le strade e i palazzi di Miami, la quale si era trasformata nel più grande punto di transito della cocaina proveniente dalla Colombia, dal Perù e dalla Bolivia. Dopo alcuni passaggi, la sceneggiatura del film venne così affidata alla penna del regista Oliver Stone (che in quel periodo aveva appena terminato di scrivere Conan il barbaro per la regia di John Milius), in cerca di rivalsa dopo che il suo ultimo film – La mano – si rivelò un grande insuccesso, oltre al fatto che il tema della lotta al mercato della droga fu a lui molto vicino. Lo sceneggiatore iniziò così a documentarsi “sul posto”, recandosi anche in Sudamerica dove incontrò pericolosi narcotrafficanti, ma il risultato finale venne considerato troppo violento per Lumet, il quale decise di abbandonare il progetto venendo sostituito da Brian De Palma.

 

Una doverosa premessa, tra i vari passaggi e cambiamenti in sede pre-produttiva di Scarface, giusto per focalizzarsi su due aspetti determinanti: l’input di dover raccontare nuovamente una storia come quella già portata su schermo nel 1932, per il suo spessore in termini tematici, narrativi ed artistici; la nuova importante location del film che, in quel preciso periodo storico, vuole essere molto di più di una “semplice” denuncia al mercato politico e criminale della droga, ma anche e soprattutto un incisivo monito sociale.

Recensione film con Al Pacino Scarface di Brian De Palma

Scarface, la recensione: la disgregazione del sogno americano nell’iridescente Miami

 

Ehi, Tony… ti ricordi che ti ho detto quando hai incominciato? Che i tipi che durano, in questo mestiere, sono quelli che filano dritto, in sordina, tranquilli. Quelli che invece che vogliono tutto, ragazze, champagne, lusso… quelli non durano.

Oltre infatti a qualche modifica nello sviluppo dell’intreccio narrativo, specialmente nel finale, il film di Brian De Palma non solo mantiene il “cuore” della tragedia dell’opera originale, ma si differenzia anche nella sua collocazione spazio-temporale. Gli anni del nuovo Scarface sono infatti quelli del fresco mandato presidenziale di Ronald Reagan, nei quali continua a rafforzarsi il pensiero conservatore e ad alimentarsi l’illusione del c.d. american dream. Nel rappresentare un’opera cinematografica che potesse mandare forti messaggi di repulsione verso la droga e la criminalità, il film di De Palma riesce anche a mettere alla berlina proprio l’immagine fittizia del sogno americano, incarnato dal suo autodistruttivo protagonista.

 

Scarface è infatti il cinema che esce dallo schermo per tornare ad essere cinema, un’operazione di reale finzione che sfrutta i sognanti paesaggi della Florida quali meri cartelloni pubblicitari e carta da parati, per un ristorante chiamato El Paraiso che si mostra come una squallida bettola da fast food. Scarface è l‘illusione del potere, di riuscire a controllare tutto e tutti solo grazie al denaro e al successo, finché questo non inizierà inevitabilmente a sfuggire di mano, con il “sogno americano” che si mostra per quello che è realmente: un sogno. Nel portare avanti questa crociata socio-politica serviva un “fantoccio” che potesse attirare l’attenzione delle masse e che il più possibile riuscisse ad incarnare questa mentalità, prima della sua autodistruzione.

 

Per tale motivo il Tony Montana di Al Pacino è decisamente perfetto per l’occasione, con il lavoro di denuncia svolto sul film che, nella disgregazione morale e fisica, rende titanico ed (anti)eroico un personaggio spregevole, violento, cocainomane e con il desiderio di conquistare tutto (“Il mondo, chico…”) e tutti (“…e tutto quello che c’è dentro.”). Oltre a quello del gangster, Tony rispecchierebbe così l’archetipo dell’uomo egocentrico, autoritario e prevaricatore, con la paranoia del potere che lo spinge ad essere carceriere anche di sua sorella (con la morbosità che, rispetto all’opera originale, viene qui attenuata), oscurato anche dall’ombra della mancanza di fiducia. La tragedia di un Dio caduto, con lo scherzo del destino dell’ultimo colpo che viene inferto proprio alle spalle, capitolando metaforicamente sul mondo che non si è riusciti a conquistare e lasciando dietro di sé tanta distruzione ed alcuna creazione.

Scarface, la recensione: cult intramontabile con un titanico Al Pacino

 

Tu accontentati, io mi prendo tutto quello che posso.

Se potrebbe risultare difficile considerare Scarface di Brian De Palma un capolavoro assoluto – inevitabile il suo confronto con un’opera come quella di Howard Hawks, i problemi in sede di montaggio e forse un’eccessiva patina nella messa in scena – sicuramente nessuno può privargli dello status di cult indiscusso. Questo non solo grazie alla presentazione di un personaggio comunque dal fascino del “bad guy” irresistibile, a sequenze e dialoghi iconici (davvero tanti, dalla concitante missione dei “colombiani” alla guerra totale nel finale, passando per il duello quasi in salsa western con il personaggio di Lopez) e ad un’incisiva colonna sonora che ha segnato una generazione, ma anche e soprattutto per il grande lavoro cinematografico portato a casa dal regista. 10 anni prima del suo Carlito’s Way (quello sì un capolavoro), Brian De Palma riprende infatti il mito di Haward Hawks senza copiarlo e mostra un cinema epicamente profondo e spettacolare.

 

Colpisce infatti come in Scarface tutte le sue linee emotive riescano ad andare a segno: i carrelli e gli “schiaffi” della macchina da presa restituiscono un thriller-action teso e dal fiato sospeso, dove la violenza sanguinolenta esplode senza troppi freni; quando presente, il lato sentimentale ed il melodramma vengono portati in scena con movimenti sinuosi ed eleganti, o a camera fissa, facendo eco anche alle drammatiche vicende familiari; lentamente si entra anche nella psicologia dei personaggi per l‘epica autodistruttiva che spinge il protagonista e che accompagna la sua selvaggia caccia silenziosa ai ruoli di comando. La moda chic travolge poi la messa in scena, con una fotografia radiosa, crepuscolare, con la patina della scenografia che accentua lo sfarzo di un castello di vetro pronto ad infrangersi. La colonna sonora di Scarface è poi un’altra arma vincente del film, composta dall’acclamato Giorgio Moroder da musica new wave ed elettronica, con la sua esplosività che segue la parabola ascendente e discendente del protagonista.

 

Già, il protagonista, quello scatenato Al Pacino che dà anima e corpo al suo titanico personaggio che si eleva e diventa mito, leggenda, forse anche eccessivamente caricata come interpretazione ma decisamente funzionale a livello narrativo e concettuale per il carattere psicologico di Tony Montana. Un grande attore accompagnato sul set da altri interpreti di spessore. L’attore cubano Steven Bauer non solo ottenne la parte senza alcun provino (e battendo la concorrenza di altri come ad esempio John Travolta), ma aiutò lo stesso Pacino nella sua parte, insegnandogli lo spagnolo e la giusta pronuncia dell’accento cubano. Un’interpretazione, quella del decisivo personaggio fraterno di Manny, lodata da molti grandi addetti ai lavori (come ad esempio Martin Scorsese), proprio come per l’allora sconosciuta Michelle Pfeiffer. L’attrice californiana, che supera la concorrenza di stimate colleghe come Sigourney Weaver, Glenn Close e Carrie Fisher, regala un personaggio ammaliante e problematico come quello di Elvira, che lancerà la sua carriera.

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Vittorio Pigini
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Laureato in Giurisprudenza, diplomato in Amministrazione Finanza e Marketing, ma decisamente un Hobbit mancato. Orgogliosamente nerd e da sempre appassionato al mondo cinematografico, con il catartico piacere per la scrittura. Studioso della Settima Arte da autodidatta, con dedizione e soprattutto passione che mi hanno portato a scrivere di cinema e ad avvicinarmi alla regia.

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