
24 Gen 2025 A Complete Unknown stampa semplici autografi ai fan di Bob Dylan
Fresco candidato a 8 premi Oscar, A complete unknown è il nuovo film scritto e diretto dal regista James Mangold. L’autore di Quando l’amore brucia l’anima – Walk the Line torna a raccontare sul grande schermo i più grandi della musica, non solo confinata al territorio a stelle e strisce.
Con protagonista Timothée Chalamet, A complete unknown narra così dell’impatto del giovane Bob Dylan sulla scena americana, con lo stesso direttamente intervenuto nella realizzazione del film anche come produttore esecutivo. Di seguito la recensione di A complete unknown, il nuovo film di James Mangold.
A Complete Unknown: la trama del film di James Mangold su Bob Dylan
Il film è tratto dalla biografia Dylan Goes Electric! di Elijah Wald, con la sceneggiatura firmata dallo stesso regista e da Jay Cocks, co-autore dei film di Martin Scorsese come L’età dell’innocenza, Gangs of New York e Silence, oltre che al cult Strange Days di Kathryn Bigelow. A complete unknown porta così sullo schermo il mito di Robert Allen Zimmerman, al secolo Bob Dylan, in un momento preciso della sua vita.
All’età di 20 anni, il giovane e talentuoso cantautore decide di far visita in ospedale ad uno dei suoi idoli musicali, Woody Guthrie, facendo la conoscenza anche di Pete Seeger. Da lì in poi l’”uragano” Dylan inizia ad abbattersi sugli States come nuova brillante stella della musica folk, sebbene Bob sfugga e voglia sfuggire da qualsiasi etichetta restrittiva.

A Complete Unknown, la recensione: l’appiattimento di un gigante
Chiunque voglia catturare l’attenzione su un palco deve essere un po’ strano. Puoi essere bello, o brutto, ma non puoi essere banale.
Il grande e desolante peccato commesso da A complete unknown è proprio quello di aver reso “banale” un personaggio come Bob Dylan, ma andiamo con ordine. Il titolo del film, come esplicitamente indicato anche dallo stesso artista in diverse interviste, vuole appunto far riferimento alla figura indefinibile di Dylan, la origin story di un menestrello misterioso che incanta per il suo alto talento.
Peccato che, quando si parla di un autore del genere, non si possa far passare come un “signor nessuno” chi viene definito uno dei più importanti artisti musicali di sempre, che in carriera vince 10 volte i Grammy awards, un Oscar alla Miglior Canzone, un premio Pulitzer ed un Nobel. Oltre all’influenza travolgente nel panorama musicale, Dylan è stato anche un volto di spicco per movimenti sociali e politici in un periodo storico particolarmente turbolento soprattutto per gli Stati Uniti.
A complete unknown prende infatti il via all’inizio degli anni ’60, un periodo cruciale per i diritti civili, la Guerra in Vietnam, il tema dell’immigrazione ebraica e la Guerra Fredda con la minaccia dei missili provenienti da Cuba. Tutto viene lasciato completamente da parte, mostrato ma oscurato, a favore delle dinamiche sulla storia della musica folk. Emblematica in tal senso è in particolare una scena del film, quella della morte di John Fitzgerald Kennedy che fa cadere nella disperazione un’intera nazione ed il mondo intero.
Tale disperazione travolge il personaggio piangente di Elle Fanning, mentre Bob guarda disinteressato da un’altra parte, senza provare alcuna emozione. A ciò si aggiunge la presenza del cantautore, lo stesso anno, al memorabile discorso di Martin Luther King al Lincoln Memorial di Washington. Si tratta infatti di un semplice frammento di qualche secondo, dove ci sarebbe uno dei momenti più importanti per la lotta dei diritti civili nella storia statunitense e con l’artista che farebbe parte di un volto di spicco per il movimento, ma il tutto viene nuovamente tranciato.
La pregna e determinante parte socio-politica viene così completamente sacrificata in virtù della storia musicale del genere folk, ma è davvero così? Il giovane Bobby irrompe nella scena come un terremoto artistico, un vero Hurricane. Ma, a parte la crescita costante della sua fama (alla quale si arriverà a breve), nel film sono praticamente inesistenti gli effetti concreti che la sua musica ha comportato nella scena musicale.
Resta un piccolo rapporto epistolare con il Johnny Cash già affrontato nel precedente film del regista, quello sentimentale (?) con Joan Baez, qualche riferimento sparso ai Beatles e l’elettrico concerto finale. Con quest’ultimo momento, si vuole far riferimento ad un cambiamento fondamentale nella carriera di Dylan, abbracciando metaforicamente con la “svolta elettrica” una liberazione dall’etichetta di cantante folk, contro i propri fan e cambiando di fatto la storia della musica.
Peccato che, nuovamente, tali effetti non vengano mai mostrati, relegando il fatto ad un semplice momento di gloria personale per Bobby fine a se stesso, alla sua non meglio precisata ambizione. Si torna così alla premessa di questo paragrafo, alla rappresentazione su schermo di questo “sconosciuto”, senza famiglia, senza passato e volto ad esistere solo e semplicemente attraverso la sua voglia di cantare.
Ne esce un protagonista inevitabilmente distante, con il quale rimane oggettivamente impossibile empatizzare se non si conoscono aspirazioni, difficoltà riscontrate, quel famoso “perché” voglia essere libero a tutti i costi. Nei 141 minuti del film, infatti, non sopraggiunge mai una reale emozione provata dal protagonista verso la sua stessa musica, come valore salvifico dell’arte verso sé stesso (i motivi del perché suona non vengono mai indicati nemmeno sommariamente), o musica come atto di protesta sociale e politica (che nella realtà avrebbe ma che nel film come accennato viene completamente oscurato).
Così come non si evince alcuna passione artistica, che diventa più un’osmotica rappresentazione di sé, anche i rapporti interpersonali risultano decisamente intangibili, ma a questo si tornerà a breve. La mente torna così ad un altro biopic musicale uscito recentemente nelle nostre sale, ovvero Better Man, nel quale lo stesso Robbie Williams si racconta senza veli in una confessione sofferta, distruggendo la sua figura per farla poi riemergere dalle ceneri.
In A complete unknown Dylan (in veste di produttore esecutivo e protagonista sul set) sfugge ancora da questa dinamica, mantenendo inutilmente un uomo misterioso ancor più misterioso, non giovando nell’economia emotiva e narrativa di un’opera cinematografica. Nel voler rappresentare un autore che vuole sfuggire da qualsiasi etichetta imposta dalla società, volendo essere semplicemente libero di suonare la musica che più desidera, A complete unknown appiattisce il peso del suo protagonista.
Senza un passato da decifrare, senza un futuro a cui puntare, il film mette così in scena un personaggio alquanto infantile e mascherato da anticonformista, che vuole essere libero perché sì.

A Complete Unknown, la recensione: stampare autografi ai fan di Dylan
Una buona canzone può fare solo del bene.
Con A complete unknown, purtroppo, James Mangold non riesce a ricalcare minimamente la profondità emotiva e narrativa dello straordinario biopic su Johnny Cash del 2005. Innanzitutto, oltre alla funzionale ambientazione storico-geografica, Walk the line narra la parabola in continua ascesa e decadenza del tormentato personaggio protagonista, con i suoi vizi e dipendenze che si scontrano con l’innato talento musicale del Man in Black.
In questo nuovo biopic, invece, la crescita della carriera di Dylan rappresenta una linea retta, costante, senza scossoni di alcun tipo in un senso o nell’altro, con il protagonista che a suo modo ne esce sempre vincitore. Al di là della piatta rappresentazione narrativa, inoltre, a non colpire decisamente è l’apporto sentimentale ed emotivo presente nel film con protagonisti Joaquin Phoenix e Reese Witherspoon, la quale ottenne anche l’Oscar per la Miglior Attrice Protagonista.
Come esposto anche in precedenza, in A complete unknown si mostra un Timothée Chalamet decisamente nella parte, ottimo nelle parti musicali ed esteticamente funzionale all’operazione “cosplayer” di Bob Dylan. Oltre alle esibizioni musicali ben ricreate, tuttavia, il personaggio resta monoespressivo e monocorde per tutta la durata del film, per andare incontro sì alla rappresentazione dell’uomo misterioso, ma contrastando fortemente con il lato umano dell’opera.
Si accennava infatti alla parte sentimentale di A complete unknown, con il film che porta avanti anche un continuo triangolo prendi e molla alquanto inconsistente ed a tratti stucchevole. Sulla stessa lunghezza d’onda si porta avanti anche l’apporto recitativo e sul personaggio della Joan Baez di Monica Barbaro, che si ricorda principalmente per il gran fascino e per le meravigliose doti musicali. A portare calore sembrerebbero essere invece le prove di due interpreti di alto profilo come Edward Norton ed Elle Fanning, che provano più volte a rialzare l’intensità del film senza che la sceneggiatura corra a loro sostegno.
Per quanto concerne poi la messa in scena, non si registrano particolari virtuosismi di Mangold in sede di regia, con la fotografia di Phedon Papamichael che (Nebraska, Il processo ai Chicago 7) che punta tutto su tonalità gialle febbrili e fortemente offuscate. Ma veniamo all’elefante nella stanza, ovvero la parte musicale presente in A complete unknown.
Sembrerebbe naturale che, in un biopic su una delle icone più importanti nella storia della musica mondiale, siano presenti in colonna sonora diversi brani, ma a tutto c’è un limite. Durante i 141 minuti si possono registrare infatti quasi 40 brani eseguiti, non come tracce appunto della colonna sonora, ma direttamente messi in scena dai cantati e musicisti del cast. Alcuni di questi vengono solo accennati, ma la stragrande maggioranza viene lasciata quasi integrale, portando ad un ingombrante e ridondante banchetto in termini di minutaggio e di ritmo del racconto.
Si potrebbe così quasi calcolare l’esecuzione di un nuovo brano ogni 3 minuti, andando inevitabilmente a fare una sorta di confronto con la presenza dei fastidiosi jump-scare nel campo del cinema dell’orrore. La missione sembrerebbe essere esplicita: lasciare che Dylan si esprima attraverso i testi delle sue canzoni, lasciando che le sue creazioni artistiche respirino in libertà.
Purtroppo, oltre alla mancanza di un accattivante stile registico nel portare in scena tali momenti (la maggior parte delle volte a camera fissa ravvicinata per seguire semplicemente l’artista di turno), le parole di quei formidabili testi non trovano poi attinenza e tangibilità sulla vita dello stesso Bob, con il film che come detto in precedenza sacrifica tanto il panorama sociale e politico quanto quello intimo ed emotivo del protagonista.
In conclusione, con A complete unknown James Mangold porta in scena un appiattimento totalizzante di una delle figure artistiche più importanti del nostro tempo. Ad essere completamente oscurato non è infatti “solo” il travolgente impatto che Bob Dylan ha avuto nel panorama sociale, politico e musicale, ma anche (e soprattutto) l’opportunità di svelare qualcosa di nuovo su un personaggio schivo e misterioso.
Potendo contare su un cast di primissimo profilo, il film presenta belle facce alle quali il regista non riesce a tirar fuori la giusta emotività, per una messa in scena calibrata che non sa brillare di inventiva. Gli spezzoni musicali sono decisamente troppi, ridondanti, che macinano e rosicchiano minutaggio e narrazione, per un’operazione da playlist su Spotify vuota e senza cuore.
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