
30 Dic 2024 Dai Diamanti non nasce niente
Distribuito nelle sale italiane dal 19 dicembre, Diamanti è il 15° film scritto e diretto dal noto regista e sceneggiatore turco Ferzan Ozpetek. Ecco di seguito la recensione del film che vede un cast corale, principalmente al femminile, composto da Luisa Ranieri, Jasmine Trinca e molte altre.
Diamanti: la trama del film di Ferzan Ozpetek
Su sceneggiatura dello stesso regista, assieme alle penne di Elisa Casseri e Carlotta Corradi, Diamanti porta in scena una visione principalmente metacinematografica. Da una parte, infatti, si segue lo stesso Ozpetek e la sua troupe lavorare alla preproduzione proprio del film Diamanti e, dall’altra, si segue la vicenda vera e propria. Questa vede protagonista le due sorelle Alberta e Gabriella Canova e la loro sartoria, quest’ultima dedita alla realizzazione di costumi di scena per cinema e teatro.
Un giorno le 2 vengono contattate dalla produzione di un importante film, che vede nell’incarico di costumista il premio Oscar Bianca Vega. Le sorelle Canova e tutte le lavoratrici della sartoria saranno così tenute ad imboccarsi le maniche per portare a termine l’ardua consegna, con le rispettive vite private che riservano più dolori che gioie.

Diamanti, la recensione: un’esasperata celebrazione femminile che fa velenosamente il giro
Le misure nella vita sono tutto.
Purtroppo no, con questa citazione del film non ci si sta riferendo alle taglie utilizzate da una sartoria, ma proprio alle dimensioni del pacco maschile. Già basterebbe questo per bollare un titolo, come il nuovo film scritto e diretto da Ferzan Ozpetek, come una rovinosa caduta di chi vorrebbe esaltare l’importanza della libertà e liberazione femminile. Decisamente banale, scontata e monodimensionale infatti la rappresentazione della scarsa compagine maschile nel film, dove gli uomini sono semplicemente violenti, non apprendono cosa si dice loro (“sembra lo abbia partorito un uomo”) e soprattutto toy-boy.
Alquanto indifendibile il modo in cui i giovani attori e commessi vengano ripetutamente sessualizzati all’interno della sartoria, fuggendo dalla semplice gag e rilasciando più di qualche immagine di pessimo gusto. Ci sarebbe da chiedersi se oggi, la stessa sessualizzazione a parti invertite, avrebbe suscitato o meno ilarità. Un falso e sconsiderato “women-power”, inoltre, viene spinto anche per quanto riguarda la delicata questione degli abusi e delle violenze domestiche.
Seguendo senza criterio la scia segnata dal recente successo di C’è ancora domani di Paola Cortellesi (che almeno ha la forza ed intelligenza di essere storicamente ambientato negli anni ’50 per proiettarsi all’oggi, ma su questo aspetto ci si ritornerà a breve), la vicenda che vede protagonista il velenoso rapporto tra Nicoletta e Bruno viene trattata con pericolosa superficialità. La sostenuta “solidarietà femminile”, infatti, invita inizialmente Nicoletta a coprire il livido sul volto, così non si vede, per poi agire unitamente in giustizia privata, con l’omicidio dell’uomo violento che risolverebbe tutti i problemi della violenza sulle donne.
Un manifesto che perde tutta l’eleganza ricercata faticosamente durante la visione, rappresentato poi in scena con una certa ironia inutilmente scomoda. Un’esaltazione dunque sconsiderata, che vuole essere di rottura ma che scivola e perde su tutti i fronti, o almeno quasi. In questo periodo storico, di rilancio per la figura cinematograficamente nascosta degli stuntmen, ad Ozpetek si riconosce il merito di voler celebrare una delle categorie della Settima Arte più oscurate, eppure tra le più esposte.
Oltre che delle donne, con omaggio finale alle icone di Monica Vitti, Mariangela Melato e Virna Lisi, Diamanti si traduce in una celebrazione di sarti e sarte, costumisti e costumiste, artigiani ed artigiane di arte e bellezza. Messo tuttavia da parte questo necessario “spot pubblicitario”, il film sbaglia completamente il suo approccio intellettuale.
Diamanti porta così all’esasperazione l’importanza della donna e della libertà femminile, rispondendo alla sessualizzazione con nuova sessualizzazione, alla violenza con nuova violenza, portando ad un corto circuito e ad un ciclo vizioso per sua natura dannoso e mai risolutivo.
Diamanti, la recensione: la finta verità del non cinema
Dai diamanti non nasce niente.
Ma l’analisi riportata nel primo paragrafo ha effettivamente un senso? Cos’è realmente Diamanti? Un interrogativo ingiustificatamente difficile a cui dare un’effettiva risposta. Senza considerare infatti il finale stesso del film, che farebbe anche presagire un racconto autobiografico dello stesso regista (almeno per come viene scenicamente posto, ma sconfessato nella realtà), l’elefante nella stanza in questo caso viene rappresentato dall’inutilità del metacinema.
Sono infatti 3 le sole sequenze in cui si “esce” dallo spazio filmico di Diamanti (introduzione, intervallo e chiusura), dove lo stesso regista si ritrova in preproduzione e successivamente in post assieme alle sue muse per lavorare alla riuscita del film. In un minutaggio anche particolarmente gravoso per quanto mostrato, si tratta di una trovata stilistica non solo inutilmente egocentrica, ma che si ritrova fatalmente fine a se stessa.
Senza dover riportare esempi illustri di come la finzione cinematografica si leghi indissolubilmente alla realtà su di essa, la finzione di Diamanti non si lega mai infatti al “documentaristico” metacinema, con un ambiguo doppio binario che conduce per forza di cose ad un percorso claudicante. Torna così l’interrogativo di cui sopra. Una volta che si sceglie di puntare al realismo della messa in scena della storia narrata (la vicenda della sartoria Canova), attraverso la drammaticità di circostanze e personaggi, dal momento che si vuole far irrompere il metacinema (completamente slegato e rivelando in questo modo la finzione della stessa) la vicenda narrata viene privata di tutto il suo peso emotivo ed analitico.
Trattasi di un’operazione fasulla che costringe a far perdere credibilità al dolore di Gabriella per la figlia scomparsa, a quello di Nicoletta o di tutte le altri lavoratrici della sartoria. Senza considerare come, le 3 scene incriminate, siano un’espressa volontà di far comparire nei titoli il nome dell’amica Elena Sofia Ricci (in questo caso ci si addentrerebbe in un terreno particolarmente scivoloso, preferendo diplomaticamente di evitarlo per indicare come si poteva forse optare per una soluzione più elegante ed efficace).
Il vero interrogativo da porsi è: era proprio necessario comparire per forza in scena autocelebrandosi, appesantendo così la visione e slegando narrativamente, emotivamente e funzionalmente il racconto? Forse no.

Diamanti, la recensione: Ozpetek ringrazia le sue muse, ancora una volta
Non siamo niente, ma siamo tutto.
Un’altra citazione tratta da Diamanti, per un film che effettivamente presenta una carrellata di frasi fatte, di catch-phrase, tutte da scartare dai cioccolatini delle feste. <<Non è necessario vedersi, quando ci si vuole bene.>>. <<Siamo come formiche, sembra che non contiamo niente ma tutte insieme possiamo farlo fuori.>>. <<Ho sentito che la protagonista dovrà affrontare il padre. Volevo aumentare lo spazio tra loro, aggiungere qualche velo. Un po’ come fanno le donne quando ingrassano, che vogliono aggiungere dello spazio tra loro ed il mondo>>.
Questi e molti altri esempi di bassezza dialettica si ripercuotono durante la visione di Diamanti, anche ripetuti e sempre con l’intenzione di strappare dallo spettatore qualche forma di stupore. Oltre alle criticità indicate nei paragrafi precedenti, l’inconsistenza ed il sovraccarico in sede di sceneggiatura si ripercuote anche sulla sfilza di personaggi in scena.
Davvero troppi per poter tratteggiare adeguatamente le varie e pregnanti vite private, con l’attenzione che tende inevitabilmente a disperdersi e facendo addirittura fatica nel ricordare i nomi dei personaggi principali. Diamanti presenta così una passerella di attrici dai nomi altisonanti, le quali si suddividono tra dive affermate, rientranti sul grande schermo dopo tempo e giovani leve.
A parte una Mara Venier fatalmente ed amorevolmente divorata dal ruolo di “zia” ed una Geppi Cucciari di troppo, l’ultimo dei problemi del film di Ozpetek è proprio l’interpretazione delle sue muse, i veri Diamanti sullo schermo. Luisa Ranieri affascina con la sua bravura e rapisce la scena; la “sorella” Jasmine Trinca e la “premio Oscar” Vanessa Scalera la seguono a ruota e così tutte le altre comprimarie della sartoria, riuscendo a gestire con ottimi risultati l’alchimia di squadra.
Tuttavia, per salvare la visione dell’ultimo film di Ozpetek risulta davvero troppo poco dover puntare su una scuderia di ottime interpreti, quando la messa in scena ricercatamente elegante non riesce a colpire. Tiepida, accaldata piuttosto che calorosa, la fotografia non riesce infatti a brillare, rimanendo ingiustificatamente opaca, di porcellana, ma riuscendo comunque ad accompagnare piacevolmente lo sguardo.
Il montaggio tedioso e gravoso presenta inoltre uno spezzatino di shot decisamente ingombrante. Prima di tornare al cinema con il precedente Nuovo Olimpo, infatti, la carriera del regista (al netto di lavori teatrali e della serie tv Le fate ignoranti) è stata principalmente orientata al campo dei cortometraggi, delle pubblicità e del videoclip, mantenendo uno stile di ripresa che, in questo caso, svilisce l’eleganza di fotografia e scenografia cinematografica.
Specialmente nei botta e risposta tra i personaggi, i movimenti della macchina da presa non riescono a portare ordine alla scena, non trovando pace e risultando eccessivamente mobile e segmentata. In conclusione, come il vistoso abito tirato fuori nel finale, Diamanti fa distogliere lo sguardo con un gioco di prestigio su nobili ideali e su una messa in scena particolarmente elegante. Tuttavia, scostando i numerosi veli posti ad ostacolo dell’intimo del film diventano evidenti velenose criticità.
Si riesce infatti ad estrarre dalla visione un finto manifesto femminista alquanto sgradevole, una glorificazione del lavoro sartoriale ed artigianale che dimentica e fa perdere valore agli altri, un’insensata autocelebrazione del regista attraverso uno sconsiderato metacinema ed una rappresentazione di messa in scena che svilisce la sua tanto ricercata eleganza.
★ ½