Recensione del film di Paolo Sorrentino Parthenope

Parthenope galleggia in acque tumultuose, bellissime e troppo trasparenti

Successivamente alla sua presentazione al 77° Festival di Cannes, in concorso per la Palma d’Oro, Parthenope di Paolo Sorrentino arriva nei cinema italiani dal 24 ottobre 2024 dopo le anteprime in alcune sale selezionate. Si tratta del 10° lungometraggio del regista napoletano dopo il precedente È stata la mano di Dio del 2021, avendo qui per la prima volta una protagonista femminile, interpretata da Celeste Dalla Porta. Ecco di seguito la recensione di Parthenope, scritto e diretto da Paolo Sorrentino.

Parthenope, la trama del film di Paolo Sorrentino

Su sceneggiatura dello stesso regista, che ha anche prodotto il film con Numero 10, Parthenope racconta la vita della ragazza il quale nome conferisce il titolo all’opera. Nata nel 1950, si assisterà così principalmente alla giovinezza di Parthenope nella sua Napoli, dagli amori “estivi” all’esperienza universitaria, passando per gli incontri e scontri in famiglia e le improbabili conoscenze con le maschere che popolano la città. Tra mito e leggenda, Parthenope è spirito della sua terra, con Sorrentino che ne mostra vizi e virtù, luci ed ombre.

Parthenope, la recensione: “vedi Napoli e poi muori!”

Io sono nata qui, in acqua.

<<Marco Aurelio decise di assumere un servo per farsi accompagnare nelle piazze di Roma. Questi aveva soltanto un compito, sussurrargli all’orecchio mentre lo riempivano di lodi “Sei solo un uomo, sei solo un uomo!”>>. In maniera decisamente ardita, si parte da questa citazione – tratta dal film del 2009 Giustizia Privata di F. Gary Gray – per addentrarsi nella recensione di Parthenope sotto alcuni punti di vista. Da Roma di La Grande Bellezza alla Napoli della Bellezza Grande, Sorrentino con il suo 10° film tende in parte a stravolgere quanto mostrato ultimamente con il suo cinema pur rimanendo sempre fedele a sé stesso.

Per la prima volta, nella filmografia del regista di This Must Be the Place e Youth (con il quale il nuovo film del 2024 ha naturalmente più di un punto di contatto), vera protagonista di un film di Sorrentino è un personaggio femminile, in modo sicuramente più lampante rispetto al precedente, dove la città di Napoli è essa stessa grande protagonista di È stata la mano di Dio. Una donna che incarna quasi letteralmente lo spirito di una città e di una terra dalla bellezza mozzafiato, ma altrettanto frivola nel vivere la sua vita.

Si torna così alla citazione del film del 2009, cambiando però città e ribaltando la sua concezione: per le vie, i quartieri e i sobborghi di Napoli tutti continuano a ricordare a Parthenope quanto lei sia una diva, una santa, di una bellezza sconfinata che le aprirà tutte le porte nella vita, mancando la presenza di quel “servo” metaforico quale coscienza di sé. Nata dalle acque, la ragazza sirena riesce ad incantare tutti con le sue forme e soprattutto con il suo sguardo, facendo nascere l’amore negli impossibili nidi fraterni o in quelli episcopali.

Parthenope incarna così pienamente la magia sacra e profana della sua terra capace di compiere miracoli – anche oltre quello di San Gennaro – ma, allo stesso tempo, ne riveste i suoi vizi, le sue ombre, tutta la sua frivolezza. L’acqua è l’elemento ovviamente più importante e ridondante del film ed infatti tutto scorre, per una visione sospesa su un fiume di sguardi e di parole. Arrivando a breve all’analisi metacinematografica e rimanendo qui sulla tenuta narrativa della storia di Parthenope, all’interno dell’operazione del rivestire la ragazza anche dell’aspetto più superficiale della sua terra, il carattere e l’aura spirituale impediscono di fatto di far acquisire valore agli svariati episodi della sua vita.

Si entra e si esce dalla Camorra con eccessiva e dannosa semplicità, la morte di una persona cara viene fatta scivolare via, un tema della maternità completamente evitato e molti altri aspetti effettivamente mostrati ma mai affrontati veramente come avrebbero meritato. Sono episodi di un carosello di ricordi e sprazzi di vita non vissuta che diventano gocce nel mare, creando così uno scenario meraviglioso ma dove una goccia non riesce a prevalere e a differenziarsi per peso emotivo e narrativo.

Si torna anche per questo aspetto alla citazione iniziale, a quel “fiume di parole” sul quale il film di Sorrentino galleggia, dando evidenza di come si sia divertito in sede di sceneggiatura a rendere Parthenope una visione lirica, ultracitazionistica, più del solito: la vita è una scatola di cioccolatini, non sai mai quale aforismi ritrovare in un Bacio. Il film è infatti una continua fucina di frasi abbellite ed altisonanti, spesso anche fuori luogo o comunque capaci di rendere evidente tale operazione di continua ed esasperata ricerca della bellezza artistica in qualsiasi dialogo, oltre che in qualsiasi luogo.

Recensione film Parthenope
Celeste Dalla Porta e Gary Oldman in Parthenope

Parthenope, la recensione: i troppi corsi di un fiume malinconico

Lo senti l’odore degli amori morti?

Il problema principale del film di Sorrentino è paradossalmente la sua inconsistenza, visibile sul fondo proprio grazie alla speciale limpidezza delle sue acque, ma andiamo con ordine. Un’opera fortemente malinconica quella di Parthenope per lo stesso regista che, contraddicendosi (ammirevolmente) con la sua stessa visione, non riesce ad avere sempre la risposta pronta ma si ritrova al contrario a rimuginare su una giovinezza sfuggita, su quella che fu l’illusione della spensieratezza. Gli anni sono quelli dell’estate che passa troppo velocemente, culla di amori passati talmente troppo in fretta da non aver avuto il tempo di assaporarli appieno.

E allora la ricerca etica del senso di bellezza nella vita si abbraccia con il ricordo personale di Napoli, vero teatro di luci ed ombre, spettacoli e misteri che riesce a conferire il proprio contributo alla domanda delle domande, ritrovando il senso della vita nel particolare, nel singolare, in quelle cose e persone capaci di lasciare un segno del passaggio dell’uomo sulla Terra nel bene e nel male. Il problema dell’inconsistenza ramifica proprio da qui, in un contatto tra ricerca universale e rievocazione della memoria personale dove ognuno di questi elementi vuole conquistare il proprio spazio senza riuscirci fino in fondo.

Oltre al carosello di frivoli episodi ed aforismi, la “vuota” frammentarietà della non narrazione (a detta del regista non deve sempre esserci una trama, perché la vita non ha una trama) impatta con forza anche sullo scorrere cronologico di Parthenope. Nel film si pensa a “tutto il resto”, ma quello che resta esterno allo sguardo della protagonista continua a scorrere in maniera insignificante: non c’è un vero e proprio coinvolgimento nell’evoluzione storica italiana, che sia gli anni del boom o quelli delle proteste giovanili, nonostante il film racconti veementemente il passaggio del tempo, gli anni scanditi anche su schermo, soffermandosi invece maggiormente solo sul santo scudetto vinto dal Napoli.

Anche il passaggio degli anni nell’aspetto più prettamente fisico per la protagonista lascia il “tempo” che trova, con Parthenope praticamente uguale (non solo nell’aspetto) tanto a 18 anni quanto a 32, sebbene qui si possa arrivare ad una soluzione “favolistica”, rendendosi conto che la protagonista invecchi (non perda comunque bellezza) solo quando lontana dalla sua terra. Si assiste quindi ad un attaccamento viscerale alla protagonista, a quella Napoli incarnata e ricoperta di veli a prescindere dal periodo storico, nonostante la Storia sia comunque presente a più riprese.

Un ricordo personale ed un intimo rimuginare, sulla giovinezza perduta e frivola, che si mostra strettamente astratto ed universale. Uno scontro ideologico e concettuale che si riversa anche nel registro adottato da Sorrentino, con la sua proverbiale ricerca del grottesco e del bizzarro che qui, spesso e malvolentieri, riesce a scadere nel ridicolo. L’ironia sarcastica sfugge infatti di mano proprio perché mal si ingloba nella costruzione lirica ed immacolata del racconto portato su schermo, trasformando Parthenope in uno spettacolo vouyeristico (proprio come una scena a metà visione che lascia qualche perplessità) che fa perdere eleganza.

Ci sarebbero diversi personaggi e situazioni che fungerebbero da esempio a ciò, ma quello più sgradevole è forse rappresentato dallo show rilasciato dal personaggio interpretato da Luisa Ranieri, emblema dell’inadeguatezza su più livelli nel ritrarre un’icona del cinema mondiale ingiustificatamente in tali vesti ed atteggiamenti. Elegante e sgradevole, verboso e riflessivo, intimo ed astratto, Parthenope non riesce ad incanalarsi in un corso ben determinato e vincente, facendo solo agitare le sue bellissime e caotiche acque poco rinvigorenti.

Parthenope, la recensione: la bellezza ancora più grande

Era già tutto previsto.

Nonostante la torbida sostanza, Parthenope porta su schermo la forma della sua acqua, un limpido mosaico di bellezza mozzafiato. È di fatto lo stesso film a rilasciare una frase ad effetto (l’ennesima) riguardante l’assimilare la capacità di vedere quando manca tutto il resto e, visivamente, il nuovo film di Paolo Sorrentino è una gioia per gli occhi, il respiro del grande cinema sullo schermo.

Non che il regista non abbia ormai “abituato” il suo pubblico ad una spasmodica ricerca della bellezza e dell’esaltazione dell’Arte nella sua messa in scena, restituendo una vera e delicata carezza tanto visiva quanto sonora. Ottima in tal senso la colonna sonora composta da Lele Marchitelli – alla sua quarta collaborazione con il regista e che realizza le musiche di Parthenope dopo quelle per C’è ancora domani di Paola Cortellesi – che si lega indissolubilmente con il sempre encomiabile lavoro nella ricostruzione fotoscenografica.

Da buona tradizione partenopea, la messa in scena si riveste di bianco ed azzurro, conferendo maggior potere evocativo proprio all’elemento dell’acqua che scorre continuamente: avvolge i bagnanti, riveste di sudore e passione, sgorga dagli occhi, oscura i volti con i suoi vapori, fino ad arrivare ad incarnarsi in un golem di acqua e sale. Napoli si spoglia per nuotare in questo mare e, così facendo, mostra anche i corpi dei suoi abitanti, catturati quasi sempre in primo piano e con il regista che vortica attorno a loro.

Parlando però del capoluogo campano e di corpi statuari è impossibile non spendere qualche parola sulla sirena Celeste Dalla Porta. Un debutto decisamente folgorante per l’attrice che, contrariamente al personaggio interpretato, è riuscita ad arrivare sul grande schermo per rimanerci. Troppo facile arrivare a citare la bellezza estetica sconfinante e perfetta per incarnare la magia di Napoli (anche perché viene ribadito in maniera ridondante già nello stesso film), ma il lavoro svolto sul personaggio è davvero lodevole.

Tornando alla “frivolezza” sopracitata, la scrittura purtroppo non permette di evidenziare una vera e propria evoluzione di Parthenope, che le avrebbe consentito di rimanere maggiormente nel cuore dello spettatore, ma Celeste Dalla Porta riesce ad andare oltre. Espressivamente emozionante in diversi frangenti, la recitazione minimalista di sguardi, sussurri e carezze permette infatti di essere funzionalmente più vicina a quella spirituale aura di musa errante sulla Terra, quella ferma e “divina” convinzione di essere giovani, poi naturalmente sabotata (positivamente) dalla prova di Stefania Sandrelli nel finale.

Certo, alla sua prima apparizione sul grande schermo Dalla Porta ha la “sfortuna” di dividere la scena con veri gladiatori della recitazione, come il sempre emozionante Silvio Orlando, Luisa Ranieri (nonostante la pesante caduta di stile del suo personaggio) e soprattutto Gary Oldman, a cui bastano pochi minuti a disposizione per lasciare il segno. In conclusione, Parthenope riesce a raggiungere l’obiettivo di riassumere in 136 minuti la meravigliosa contraddizione del mondo napoletano nella mente del suo regista, rievocando un teatro di sgradevoli e stereotipati problemi che si annidano in una terra di meraviglia e potente bellezza.

Le acque della visione, tuttavia, sono tumultuose, caotiche, incapaci di seguire un corso rinvigorente finendo per sbattere con forza sugli scogli. Ma la bellezza, fortemente ricercata e glorificata (anche eccessivamente in sede di sceneggiatura), riesce ad imprimersi sullo schermo lasciando un mirabile colpo d’occhio e non solo, oltre alla riuscita scoperta di una nuova futura diva per il cinema italiano.

★ ★ ★ ½

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Vittorio Pigini
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Laureato in Giurisprudenza, diplomato in Amministrazione Finanza e Marketing, ma decisamente un Hobbit mancato. Orgogliosamente nerd e da sempre appassionato al mondo cinematografico, con il catartico piacere per la scrittura. Studioso della Settima Arte da autodidatta, con dedizione e soprattutto passione che mi hanno portato a scrivere di cinema e ad avvicinarmi alla regia.