Recensione film horror Longlegs con Nicolas Cage

Longlegs è la nuova prova dello smisurato talento di Oz Perkins rimasto soffocato in gola

Successivamente alla sua uscita nelle sale statunitensi in estate, con relativo grande successo al box office, Longlegs di Oz Perkins arriva in Italia la notte di Halloween. Quarto film scritto e diretto dal regista di February – L’innocenza del male, il titolo vede come produttore anche l’attore Nicolas Cage, il quale figura nel ruolo del villain del film. Un thriller-horror, sulle tracce del serial killer, che vede protagonista Maika Monroe ed ecco di seguito la recensione di Longlegs di Oz Perkins.

Longlegs, la trama del film horror con Nicolas Cage

Nato da un’idea dello stesso regista, che ne cura personalmente anche la sceneggiatura, Longlegs è un thriller-horror sulle tracce del serial killer, sospeso tra magia ed occultismo.

Dopo un breve incipit ambientato 20 anni prima la narrazione, il film si immerge nell’Oregon degli anni ’90 e vede come protagonista Lee Harker, nuova recluta nelle forze dell’FBI che dimostra fin da subito di possedere delle certe capacità legate alla chiaroveggenza, le quali potrebbero essere fondamentali per risolvere un caso rimasto in sospeso dopo molti anni. Si tratta di una misteriosa serie di omicidi nei quali, generalmente, il capofamiglia uccide moglie e figli prima di suicidarsi. Sui quali luoghi del reato vengono infatti lasciate delle criptiche lettere firmate “Longlegs”, con Lee Harker che si immergerà totalmente nel caso per cercare di catturare l’autore delle stragi.

Longlegs, la recensione: la paura di criptiche lettere

C’è qualcosa che non mi dici?

Non poteva che approdare in Italia la Notte di Halloween il nuovo film Longlegs, dopo una campagna marketing lodevole negli Stati Uniti quest’estate che, infatti, ha permesso di registrare ottimi risultati anche al botteghino. Fin dal suo lacerante debutto con February – L’innocenza del male, il regista Oz Perkins è riuscito a farsi notare sempre di più nel panorama thriller-horror degli ultimi anni, tornando anche qui a mostrare sullo schermo una determinata “innocenza del male”, o meglio, “il male nell’innocenza”.

Figlio del leggendario Anthony, che ha regalato alla storia del cinema soprattutto il terrificante ghigno di Norman Bates di Psycho, Oz continua a sviscerare dei legami interrotti all’interno del nucleo famigliare. Nonostante infatti la caccia all’uomo del serial killer protagonista, anche Longlegs si tramuta in una questione di famiglia, dove i figli vengono abbandonati in un modo o nell’altro a sé stessi, diventando prede facili affinché il Male possa annidarsi e ramificarsi al loro interno fino a traviarne la mente.

Un abbandono che lo stesso Perkins allargherebbe alla sfera socio-politica, con questo stretto legame tra anni ’90 e ’70 impreziosito dalle continue apparizioni di foto presidenziali appese alle pareti, da Clinton a Nixon, rievocando un periodo a dir poco turbolento per la storia americana. Dall’equazione non riesce a tirarsi fuori nemmeno l’istituzione religiosa, con una Chiesa ambiguamente “mascherata” e dedita alla moderna caccia alle streghe negli anni della diffusione del c.d. satanic panic.

Senza considerare come, gli anni ’70, vengano fuori e continuino l’eco dell’esplosione mediatica riscontrata da fatti drammaticamente celebri come quelli legati al Killer dello Zodiaco e soprattutto alla Manson Family. Questi e molti altri elementi socio-politici portano così ad un clima in cui risulterebbe davvero difficile non provare paura, dove neppure le mura domestiche riescono a rappresentare una barriera verso i pericoli provenienti dall’esterno. Nei precedenti film dello stesso Perkins, infatti, i giovani protagonisti rappresentano sempre orfani, figli abbandonati dai genitori o non riconosciuti dagli stessi.

Anche in Longlegs il regista mette innanzitutto in primo piano un rapporto madre-figlia spezzato, segnato da un “abuso di potere”, proiettandosi a generazioni alle quali viene eliminato il passato e di conseguenza il proprio futuro, delle marionette controllate da diabolici fili ed abbandonate all’oscura perdizione. Un Male che in Longlegs viene incarnato da un mefistofelico e grottesco serial killer il quale, allo stesso modo, è burattino del suo luciferino padrone, con quel “uomo al piano di sotto” che acquista così doppio significato, terreno e metafisico.

Un malvagio e stragonesco calderone questo Longlegs, il quale prova in questo modo ad improntare su schermo il male nell’innocenza, i serpenti di quel peccato originale di nascere e vivere in un periodo di paura nella storia americana (uno dei tanti), allargandosi all’impossibilità di essere al sicuro nemmeno tra le proprie mura domestiche. Un’operazione quella di Oz Perkins che butta molta carne al fuoco, non riuscendo tuttavia a trovare una chiave vincente da questo punto di vista, oltre a non poche cadute di stile in sede di sceneggiatura.

Mantenendo a margine tale analisi socio-politica e concentrandosi sullo spazio prettamente “filmico”, l’indagine sul serial killer Longlegs presenta non pochi punti oscuri ed una certa superficialità inaspettata e che lascia l’amaro in bocca. Molti gli sviluppi narrativi che infatti presentano amare perplessità, come una frettolosa decifrazione delle criptiche lettere di fincheriana memoria, l’effettiva cattura del villain avvenuta di punto in bianco in una strada randomica e soprattutto lo sfruttamento del paranormale all’interno del film.

Si instaura infatti in questo senso quel detto non detto che, non solo lascia inevitabili domande sull’effettiva consistenza del fantastico, ma porta anche ad interrogarsi sulle capacità sensitive della protagonista, caricate ad inizio film per venire poi completamente oscurate. Un’ambiguità narrativa che invece viene spazzata via dal celeberrimo “spiegone” nel finale che, di fatto, fa notevolmente scadere l’aura mistica e di mistero costruita da “un bravo artigiano” fino a quel momento.

Recensione Longlegs
Longlegs di Oz Perkins

Longlegs, la recensione: Perkins artigiano del terrore

Poi mi fermai sulla sabbia del mare. E vidi salire dal mare una bestia che aveva dieci corna e sette teste, e sulle corna dieci diademi e sulle teste nomi blasfemi.

Una sceneggiatura dunque accattivante quella di Longlegs, la quale chiede (senza che ce ne sia davvero il bisogno) di decifrare le sue enigmatiche lettere, presentando anche non poche cadute di stile. Tuttavia, quello “stile” artistico improntato da Perkins, nel costruire le immagini della sua opera di terrore, è davvero dell’altissimo livello al quale il regista ha ormai abituato alla sua 4a opera cinematografica.

Una visione tesa ed angosciata, che scorre in maniera fluida per via soprattutto dell’eccellente lavoro svolto sul montaggio, per una totale intesa tra significante e significato che non solo evita tempi morti e scandisce il giusto ritmo del film, ma incasella anche scelte funzionalmente artistiche nella costruzione della visione, su tutti la strategia utilizzata per presentare il villain all’interno della narrazione. Giocando molto con la camera fissa e con i volti in primo piano dei suoi protagonisti, lo stile di ripresa di Perkins porta all’attenzione anche un affascinante esercizio sullo zooming: entrando ed uscendo lentamente dalla scena si restituisce un effetto tramortente, forte anche della scelta sonora del rock psichedelico e glem che accompagna la visione a più riprese.

Gli schiaffi impattati allo spettatore dagli ingranaggi di questo automa deforme sono quindi notevoli, uscendo con lo sguardo dal suo interno e soffermandosi sul suo aspetto estetico. In Longlegs è infatti molto interessante anche il ruolo stesso dello sguardo, del focus concettuale, con il “formato Polaroid” che racchiude in istantanee i ricordi andati perduti, per poi espandere la conoscenza al presente e al sensoriale.

Un binomio foto-lettere che si traduce in un cambio di mezzo e di conseguente influenza sullo sguardo, con Perkins che non disdegna le regole e derive del cinema horror moderno. Presenti infatti anche in Longlegs i tanto temuti jumpscare, sebbene in questo caso il regista riesca a dimostrare come tale espediente da spavento possa essere tranquillamente utilizzato da parte di una mano esperta, che introduce momenti di sgomento non fini a sé stessi e soprattutto con le giuste tempistiche di scena.

Un lavoro tecnico-visivo che poi si impreziosisce anche dell’ottima composizione foto-scenografica. Innanzitutto conducendo lo spettatore all’interno di una storia claustrofobica e malsana, dove anche gli spazi esterni vengono ristretti da case scomode ed alberi morti ed interminabili per via dei loro secchi rami (una ramificazione del Male sempre visibile, quelle Longlegs che si estendono per tutta l’inquadratura). In secondo luogo, la perizia nella costruzione geometrica dello spazio e dell’inquadratura permette ad Andrés Arochi di effettuare un lavoro certosino con l’illuminazione, algida all’esterno ed ambrata e legnosa negli interni lugubri.

Una costruzione visiva dunque ammirevole quella perpetuata da Perkins, che si ritrova anche a dover gestire emotività ed espressività dei propri protagonisti. Da questo punto di vista, il personaggio di Lee Harker avrebbe meritato forse una dedizione maggiore nello studio di background e di evoluzione emotiva di un personaggio oppresso da una paura inconsapevole, ma Maika Monroe sa metterci del suo tornando alle c.d. vibes del It Follows di David Robert Mitchell. Oltre alla comparsa (efficace) della Kiernan Shipka di February, ad incidere con buoni risultati è anche la prova di Alicia Witt.

In tale equazione non ci si poteva esimere dal celebrare invece la prova da villain di Nicolas Cage, sempre più immerso nella realtà del cinema di genere dopo i vari Mandy, Il colore venuto dallo spazio, Prisoners of the Ghostland e Dream Scenario. Anche grazie alla sopracitata costruzione filmica del personaggio nel riempimento dello spazio, il suo Longlegs lascia sicuramente il segno, nonostante un trucco prostetico che perde efficacia una volta posto in primo piano.

Insomma Longlegs è un’altra partita vinta per un talento registico come quello di Oz Perkins, che rimane saldamente tra i nomi più interessanti nel panorama del cinema thriller-horror degli ultimi anni. Tuttavia, l’attesa del “fan” dell’autore e soprattutto l’eco mediatico proveniente Oltreoceano si vanno a scontrare con un film concettualmente “basico”, che presenta non poche sbavature e punti enigmatici nello sviluppo della sua narrazione e nella costruzione dei suoi personaggi.

In Longlegs manca forse una spinta ulteriore, quel “cuore” che lo avrebbe fatto sicuramente diventare non solo un istant cult ma proprio tra i titoli più interessanti degli ultimi anni. Nonostante ciò, non si può negare un’ammirevole potenza artistica sprigionata da ogni inquadratura, che porta il film di Perkins a candidarsi tra i migliori film horror del 2024.

★ ★ ★ ½

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Vittorio Pigini
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Laureato in Giurisprudenza, diplomato in Amministrazione Finanza e Marketing, ma decisamente un Hobbit mancato. Orgogliosamente nerd e da sempre appassionato al mondo cinematografico, con il catartico piacere per la scrittura. Studioso della Settima Arte da autodidatta, con dedizione e soprattutto passione che mi hanno portato a scrivere di cinema e ad avvicinarmi alla regia.

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