Recensione film Emilia Perez

La rabbia di Emilia Perez nel far sentire la sua “voce”

Presentato in Concorso al 77° Festival di Cannes, Emilia Perez è il 10° film scritto e diretto dal regista francese Jacques Audiard. In tale occasione, ad arrivare furono il Premio della giuria ed il Prix d’interprétation féminine, assegnato all’intero cast con Karla Sofía Gascón, Selena Gomez, Adriana Paz e Zoe Saldana. Da qui in poi il fenomeno Emilia Perez ha preso il largo, rivelandosi un vero terremoto cinematografico in grado di travolgere tanto gli EFA quanto i Golden Globes, diretto verso la Notte degli Oscar. Ecco di seguito la recensione del film di Jacques Audiard Emilia Perez.

Emilia Perez, la trama del film con Zoe Saldana

Su sceneggiatura dello stesso autore francese, assieme alle firme di Thomas Bidegain, Léa Mysius e Nicolas Livecchi, Emilia Perez è il nuovo film di Jacques Audiard che segue le vicende di un temuto boss del cartello messicano e di Rita. Quest’ultima è infatti membro di uno studio legale in Città del Messico, disillusa dal suo lavoro e sottopagata, che riceve un giorno la telefonata del potente e temuto Manitas Del Monte. Questo le chiederà di accettare la sua offerta (senza avere troppa scelta), ovvero di aiutarlo ad inscenare la sua morte – specialmente agli occhi di sua moglie Jessi e dei suoi 2 figli – per coronare un sogno rincorso da troppo tempo: cambiare sesso.

Una volta cambiata identità in Emilia Perez, la nuova donna si renderà tuttavia conto che non può vivere senza i propri figli e li chiama a vivere assieme a Jessi nella sua villa in qualità di sorella mai conosciuta del defunto Manitas. Nel tenere vicina la famiglia ma, allo stesso tempo, mantenere nascosta la vera identità di Emilia Perez porterà a complicare le cose.

La recensione di Emilia Perez

Emilia Perez, la recensione: una continua trasformazione

Cambiando il corpo cambia l’anima.

Ne siamo sicuri? Che sia da uomo a donna o da donna a uomo, sembrerebbe essere questo il monito lanciato dall’ultimo film scritto e diretto da Jacques Audiard, di fatto ammonendo quelle che sembrerebbero essere le uniche convinzioni della sua quasi protagonista. L’autore francese porta infatti ad ascoltare la voce che si porta dentro, che più degli occhi sembrerebbe essere il vero specchio dell’anima. Il film mostrerebbe infatti come sia possibile cambiare il proprio corpo, la propria vita, pur mantenendo intatta quella stessa anima, quel temperamento, quei sentimenti che non possono mutare.

Attraverso la sua mirabile abilità mutaforma, Emilia Perez arriva così ad un affascinante cortocircuito che, per sua natura, è sia affascinante che un cortocircuito…ma andiamo con ordine. Quello messo in scena del regista francese non è un film di mezzo, ma un film sul mezzo, tanto in riferimento al dualismo specialmente interiore quanto rivolgendosi al veicolo di transizione e di cambiamento. Proprio assieme allo splendido The Substance di Coralie Fargeat, concorrenti allo stesso Festival di Cannes, si torna a riflettere sul fatto di sentirsi a metà e sulla possibilità di cambiare il proprio corpo per poter cambiare vita e società.

Anche Jacques Audiard mostra la necessità della fluida possibilità attraverso uno sguardo al femminile, inaugurando la visione di Emilia Perez con il personaggio di Zoe Saldana che <<invita ad aprire le porte del tribunale della coscienza>>. Un’arringa scoppiettante quella del film, che parla di violenza in un Paese che soffre e dove si è costretti a mostrare i muscoli, in tutti i sensi. E allora un avvocato che non crede più nella giustizia viene avvicinato dall’incarnazione dell’antigiustizia, un boss del cartello, della malavita che, sempre per quella mirabile capacità di mutaforma del film, sarà il vero portatore di quell’utopica giustizia.

L’idea, vincente nel rendere uno dei criminali più spietati bramoso di coronare il suo sogno di cambiare sesso, porterebbe infatti ad un’intensa riflessione del tema, arrivando a quello della seconda possibilità che può essere sempre concessa. Il boss della malavita cambia corpo e diventa paladina per la giustizia dei desaparecidos. Non ci si riferisce in tal caso alle drammatiche vicende storiche legate principalmente alle dittature argentine e cilene, quanto piuttosto ai generici “scomparsi” (non per questo circostanze meno drammatiche) vittime specialmente della malavita messicana, la stessa alimentata dallo stesso Manitas.

Proprio a questo proposito occorrerebbe sottolineare una mancata incisività per quanto riguarda proprio il personaggio protagonista. Emilia Perez non si nasconde infatti nel mostrare cadaveri, dita mozzate e violenza anche psicologica, ma le attività di quello che rimane uno dei più spietati boss del cartello messicano restano sempre all’oscuro, addolcendo convenientemente il personaggio e perdendo l’occasione di renderlo ancor più scomodo, e quindi più efficace. Emilia viene così venerata come una santa, mentre Manitas resta lo spietato criminale, ed ecco che inizia a prendere piede quel “cortocircuito”. Emilia e Manitas sono infine diversi?

Audiard aggiunge una netta negazione nel finale del film, con il personaggio interpretato da Karla Sofía Gascón che dimostra come non abbia perso quell’anima violenta, gelosa e morbosamente attaccata ai propri figli. Allo stesso tempo, nonostante abbia coltivato nuovi sentimenti e sia vicina a cambiare vita con l’arrivo del nuovo matrimonio, Jessi non ha mai smesso di amare Manitas. Sebbene possano cambiare le circostanze ed addirittura si possa cambiare aspetto fisico, le persone restano quelle che sono e quella “voce” da ascoltare resta immutabile.

Allora a cosa è servito aver cambiato corpo e sesso? Il cortocircuito in questo caso inizia a diventare particolarmente ambiguo, non solo in termini sociali e politici ma anche e soprattutto morali ed intimi. Il finale di Emilia Perez, infatti, nonostante sia alquanto appagante per quanto concerne lo spettacolo della visione, viene di fatto troncato nella catarsi del personaggio e manca un vero respiro chiarificatore.

Ad essere sacrificata è poi la carriera di Rita, partita come protagonista ad inizio visione in cerca di rivalsa personale: da donna di colore, sfruttata e sottopagata, l’avvocato riesce ad avere gloria personale (espressa in un intenso pianto liberatorio), per poi venire messa sempre di più in secondo piano. Non sapremo più nulla della carriera professionale di Rita o della sua vita sentimentale, se non che abbia raggiunto il suo desiderio di “avere dei figli”.

Quello che sarebbe potuto essere un inno definitivo al concetto di libertà individuale, nel senso più alto del termine, presenta un’abilità mutaforma eccessivamente marcata che porta Emilia Perez ad essere una lama a doppio taglio. Molta la carne al fuoco, con il tavolo da gioco che si fa particolarmente affascinante, ma la mirabile capacità di trasformarsi diviene fatalmente incapacità a soffermarsi.

Il tema della carriera politica di un avvocato donna in un mondo machista diventa così pretesto per arrivare al boss in cerca di redenzione; il cambiamento di sesso, del corpo e quindi di vita diventa così pretesto per arrivare al tema politico dei desaparecidos; l’attività nell’associazione diventa pretesto per arrivare a vicende di thriller sentimentale che poi esploderà nel finale e metterà in discussione la stessa visione.

L’ardente desiderio di Emilia Perez di far sentire la sua voce diventa quindi eccessivo, uno sfogo rabbioso più che un’arringa precisa e determinante. Oltre che un film sul mezzo, quello di Jacques Audiard resta purtroppo un film composto da tante metà, estasiato e condizionato dalla propria abilità di cambiare forma tanto dall’aver dimenticato una vera sostanza.

Emilia Perez, la recensione: un musical brillante, severo ed energico…anche troppo

Ascoltare è accettare.

Nell’indicare la mancanza di una vera e ferma sostanza, non si vuole tuttavia bocciare il cuore del film. Nonostante avrebbero meritato un maggior respiro, i temi portati in scena da Emilia Perez sono sinceri, efficaci e stimolano riflessioni anche se, come quasi sempre avviene in questi casi, il “come” (e dunque anche qui il mezzo) vengano portati in scena diventa determinante.

Proprio per esaltare quella “voce” dentro di noi da ascoltare, Jacques Audiard sceglie la brillante via del musical e del sonoro in generale, nonostante anche qui prevalga l’abilità mutaforma del film. Da legal-thriller a gangster movie, Emilia Perez passa anche per il sentimentale ed il dramma storico-politico, senza accantonare un certo senso grottesco e di commedia rosa che tuttavia tende a zoppicare. La sceneggiatura ad 8 mani riesce con ottimi risultati a passare da un genere all’altro con oliata facilità, nonostante qualche snodo narrativo possa sfuggire alla sospensione dell’incredulità (risulta arduo credere che Jessi non si sia mai accorta delle condizioni del marito, specialmente che non venga un dubbio nella lite, ma in generale la gestione del segreto, su chi conosca cosa, risulta alquanto superficiale).

Incredulità che, tuttavia, si scontra inevitabilmente con la magia ed il surreale del musical, che qui risulta particolarmente velenoso, acido e rabbioso. Anche per lo stile “parlato”, quasi rappato, Emilia Perez sfugge da una messa in scena sognante da classico musical, con il regista pronto ad esaltare ogni spezzone musicale attraverso il dinamico (anche troppo) stile di ripresa. Un montaggio frenetico, schiaffeggiante, che arriva anche a sfuggire di mano per la troppa energia e che presenta sicuramente qualche minuto di troppo, ma che riesce comunque ad assestare scene di grande potenza.

In tal senso Emilia Perez parte subito in 5a con il primo ruggente momento musical, che inaugura di fatto la visione ma con il film che raggiunge il picco nella canzone El Mal, vincitrice del Golden Globe. Una colonna sonora dissacrante, feroce e martellante, che fa suo anche un comparto sonoro in generale particolarmente efficace. Quella “voce” si sente, si sentono i cori in sottofondo di voci femminili, di sussurri, di anime cadute che cercano giustizia e che poi diventano quelle stesse voci dei desaparecidos, voci di oppressi ma non dimenticati.

A sentirsi sono però anche le voci del graffiante cast, premiato eccezionalmente proprio al Festival di Cannes. Karla Sofía Gascón è una rivelazione, così come la stessa Selena Gomez, con la pop star da sempre vicina al mondo cinematografico e che comincia a prendere davvero piede dopo collaborazioni con registi come Woody Allen e Jim Jarmusch. Ma se l’attrice protagonista e l’interprete di Jessi riescono di fatto a stupire con belle interpretazioni, a non stupire più di tanto è il talento di Zoe Saldana.

Finalmente è il tempo di quella che resta una delle attrici più di successo di Hollywood, soprattutto per i suoi ruoli di Neytiri e Gamora nei kolossal di Avatar e del MCU, che diventa protagonista in un film dove non figura come tale. Questioni “burocratiche” e di etichetta queste, ma la Rita di Zoe Saldana buca lo schermo per capacità recitative, canore e di cattura della scena.

Davvero un peccato che il personaggio venga di fatto “schiacciato” – da quella che è la vera protagonista del film – a soli 40 minuti di visione, nonostante continui a rappresentare una presenza fissa in termini di minutaggio e di carico emotivo. In conclusione, in Emilia Perez di Jacques Audiard il desiderio di far sentire la propria “voce” è furente, urlando una condizione oppressa e resa claustrofobica.

I punti di vista “urlati” sono talmente affascinanti ed interessati che “urlare” non era necessario (anche metaforicamente parlando), rendendo doverosa una maggior cura nelle parole espresse da quella “voce”. Una rabbia ed un furore che travolge il film da tutti i punti di vista, mettendo sul fuoco più carne di quella necessaria, con la messa in scena che sfugge alcune volte di mano e con interpretazioni che si fanno alquanto cariche. Ciononostante Emilia Perez resta una visione che osa, brillante, genuina e che, proprio in riferimento a questo, avrebbe dovuto urlare di meno e respirare di più.

★ ★ ★ ½

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Vittorio Pigini
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Laureato in Giurisprudenza, diplomato in Amministrazione Finanza e Marketing, ma decisamente un Hobbit mancato. Orgogliosamente nerd e da sempre appassionato al mondo cinematografico, con il catartico piacere per la scrittura. Studioso della Settima Arte da autodidatta, con dedizione e soprattutto passione che mi hanno portato a scrivere di cinema e ad avvicinarmi alla regia.