
21 Mag 2024 L’Odio: la violenza chiama violenza e la Terra brucia
Con protagonista Vincent Cassel nel ruolo che lanciò la sua carriera cinematografica, L’Odio (La Haine) del 1995 è il secondo film scritto, montato e diretto dal regista francese Mathieu Kassovitz.
L’Odio, la trama del film di Mathieu Kassovitz
Scritto dallo stesso regista, il film 3 volte vincitore dei Premi Cesar e di quello per la Miglior Regia al Festival di Cannes fa radicare la sua storia su un reale fatto di cronaca nera e, più generalmente, della turbolenta condizione sociale nella Francia degli anni ’90.
In particolare, L’Odio narra della giornata tipo di 3 amici (Vinz, Said e Hubert) che vivono nella grande area periferica parigina delle banlieue, con le ore che succedono il selvaggio pestaggio da parte della polizia di un altro giovane, Abdel. Quest’ultimo faceva infatti parte di un gruppo di manifestanti che si sono scontrati contro le forze dell’ordine, ma l’elettrica situazione tra le fazioni in città è destinata a precipitare.

L’Odio, la recensione: la violenza chiama violenza
È la storia di una società che precipita e che mentre sta precipitando si ripete per farsi coraggio “fino a qui tutto bene… fino a qui tutto bene… fino a qui tutto bene”, ma il problema non è la caduta ma l’atterraggio.
La recensione potrebbe di fatto chiudersi qui, con le immagini del secondo film del francese Mathieu Kassovitz che parlerebbero da sole e con questo monito finale che rimbomberebbe a mo’ di campana funebre. L’Odio non sarebbe altro infatti se non un falso documentario che, immergendo corpo ed anima nel delicato panorama sociale e politico della periferia francese, diventa un manifesto universale sulla fatale spirale di violenza che trascina a fondo le sue innocenti (?) vittime.
Una sola giornata basta per “bruciare tutte le illusioni”, come recita la canzone dell’incipit Burnin’ And Lootin’ di Bob Marley, dove il pugno di Tommie Smith alzato pacificamente in senso di protesta si trasforma in un’arma per colpire il proprio avversario fuori dal ring. Nel vivere il malessere della periferia si diffonde la leggenda di una pistola perduta che diventa un tesoro prezioso da recuperare, nel prendere appunti dagli insegnamenti della strada fare il “tosto” con ferro in mano è un rituale per diventare grandi e rispettati.
“Il futuro siamo noi” si legge a grandi lettere sui cartelli pubblicitari, ma intorno si fa Terra bruciata in nome di ideali effimeri che vedono un mezzo – la violenza, l’odio – ma non il fine. In questa giovinezza nichilista i racconti degli amici passano dagli amori futili ad esaltanti reportage di guerriglia urbana, dove nemmeno l’arte e lo spettacolo riescono nella loro funzione salvifica, dato che musica, sport e cinema continuano a rievocare violenza in ogni dove. L’Odio mostra quindi giovani manifestanti di rabbia, propensi e predisposti alla violenza, anche se non sanno veramente il perché e risultano incapaci di compiere indicibili azioni promesse.
In un film che fa spiccare esteticamente il bianco e nero, una netta distinzione nella vita tra “buoni” e “cattivi” non potrà mai esistere e così questa rabbia giovanile anche fuori controllo diventa causa ed effetto allo stesso tempo del “fascistico” potere autoritario delle c.d. forze dell’ordine. Il manganello facile, il distintivo esibito in tono intimidatorio, le sbarre della cella che diventano quelle di uno zoo che rinchiude animali da maltrattare e deridere, sono solo alcuni degli elementi che spingono anche “l’altra parte” a prendersi le dovute responsabilità, con il film che di fatto si apre e chiude con un atto di violenza messo in atto da parte della polizia contro un giovane.
La storia dell’uomo che cade da un palazzo di 50 piani si lega così indissolubilmente alla leggenda della pistola da recuperare, con la turbolenta condizione sociale tra le due fazioni in gioco che, scandendo ora dopo ora lo scorrere del filo del destino pronto a spezzarsi, si trasforma in una roulette russa per vedere a chi toccherà il prossimo proiettile. Il problema è proprio quello di conferire consistenza all’Odio, che rimane di per sé un concetto astratto ma che conduce inevitabilmente al dramma. Una caduta che non può evitare il suo brusco “atterraggio”, ma può solo rimandarlo. Le forze di polizia devono garantire l’ordine per evitare il caos, i giovani devono ribellarsi quando vedono negato o compromesso il proprio futuro, ma quando c’è Odio e si esercita violenza – dove questi 2 elementi sono sempre uno la reciproca causa e conseguenza dell’altro – il risultato non può che essere fatale da ambo le parti.
L’ignoranza della discriminazione e del preconcetto è la vera pistola sempre pronta a colpire, dove il dispregiativo pensiero de “i giovani d’oggi” assume pericolosamente i connotati ACAB. Esemplare in tal senso il personaggio di Hubert, che come novello Virgilio già all’Inferno insegna a Vinz come l’Odio richiami a sé altro Odio, arrivando anche a mostrargli come lui non sia in realtà un assassino nemmeno quando ha un nazista a comodo tiro. Ma in questo Inferno parigino le buone azioni non ripagano se si è già immersi in quella spirale d’Odio e corruzione non solo morale, rispecchiando semplicemente altri “piani” che vengono superati prima di un atterraggio che rimane fatalmente inevitabile.
Si arriva così al finale shock, dove il tragico personaggio di Vinz viene ucciso proprio da un poliziotto che aveva giurato poco prima di giustiziare per poi abbandonare la sua missione di morte, la polizia “subdolamente” in borghese si macchia di sangue quasi per gioco e dove il retto personaggio di Hubert è costretto a prendere l’eredità d’Odio del suo compare, anche se per troppo poco tempo. <<Non importa quanti ne ucciderai, ce ne sarà sempre un altro>> viene fatto monito al personaggio interpretato da Cassel ed il finale non mostra infatti l’esito dell’ultimo duello, lasciando aperto il conteggio delle vittime destinato viziosamente ad aumentare.
L’Odio, la recensione: colori di grande cinema in un mondo in bianco e nero
Porca puttana, mi sento come una formica persa nello spazio intergalattico.
Pur rimanendo affianco al suo giovane trio, Kassovitz nel suo secondo film non prende esplicitamente le difese di una o dell’altra parte, mostrando un mondo grigio che non può presentare colori. In questo è funzionalmente perfetta la nitida fotografia in bianco e nero di Pierre Aim, inseparabile collaboratore del regista nei suoi primi 3 film d’esordio, che permette di evidenziare al meglio le sagome all’interno di un’inquadratura particolarmente mutevole.
Una conduzione della macchina da presa infatti molto dinamica quella di Kassovitz, in pieno stile anni ’90, che mette in pratica una “marcatura ad uomo” verso i suoi protagonisti, permettendo una migliore immedesimazione nelle loro vite grazie ai vari piano sequenza. Una carrellata di immagini che si differenziano per ampiezza e profondità anche in relazione ai capitoli narrativi che vengono continuamente scanditi dal passare delle ore, con le ampie e lucenti inquadrature della periferia che lasciano il passo a quelle più scure e chiuse della notte nella metropoli, dove sono i protagonisti ad essere messi direttamente a fuoco.
Tra le tante costruzioni visive ed immaginifiche che compongono il frammentato quadro de L’Odio, su tutte spicca l’omaggio al Taxi Driver di Martin Scorsese, con il monologo del Vinz/Travis che ha contribuito a far diventare il film un instant cult. Un’immersione profonda e personale – quella attuata dal regista – tale tanto da restituire allo spettatore un piglio simil-documentaristico, mettendo agli atti il passare delle ore di una giornata tipo per il gruppo protagonista, con il drammatico registro del comun vivere e del cinema verità alimentato dalle vere immagini di repertorio iniziali, con l’ora e 30 di visione minuziosamente montata dallo stesso regista.
Per sbalzare la visione da una situazione di pericolo all’altra, passando per effimere Oasi di tranquillità dove le “mucche” possono liberamente pascolare, determinante il comparto sonoro che va tanto dallo speciale dialetto (il gergo del verlan) parlato dai protagonisti al cadenzato reparto musicale di Vincent Tulli. Ma L’Odio resta un racconto di sofferenza, di scontri tra le fazioni in gioco, una delle quali trova una valida rappresentazione recitativa nell’improbabile ed emarginato trio protagonista. Soffiando sul fuoco del cinema verità, i personaggi riprendono infatti anche i nomi dei propri interpreti Said Taghmaoui, Hubert Koundé e soprattutto il Vinz di Vincent Cassel, il quale più di tutti vedrà aperte le porte del successo grazie a questo suo ruolo della carriera.
Tra forti influenze dalla New Hollywod (su tutti Scorsese e Cimino), Spike Lee e Tarantino, con inaspettate colorazioni del cinema surreale e grottesco, al suo secondo film Kassovitz realizza un instant cult pronto ad esplodere nella sua polveriera di sofferenza in un punto di non ritorno, di rottura (anche e soprattutto generazionale sul tema dell’incomunicabilità, se non con la violenza), di riferimento per il cinema politico e metropolitano che lo seguirà.
★ ★ ★ ★ ½
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