29 Set 2024 Non aprite quella porta è il malsano banchetto che reinventa l’horror moderno
Tornato nelle sale italiane in occasione del 50° anniversario della sua uscita, il film di Tobe Hooper Non aprite quella porta (in originale The Texas Chain Saw Massacre) è il primo dell’omonima saga horror iniziata nel 1974. Un’opera che oltrepassa il genere e segna la storia per la sua proverbiale visione al massacro che, di fatto, reinventa il modo di concepire ed approcciare il cinema dell’orrore. Di seguito la recensione del film capolavoro Non aprite quella porta, che imprime sullo schermo la prima vera maschera del cinema horror moderno, ovvero quella del Leatherface..
Non aprite quella porta, la trama del film horror di Tobe Hooper
Su sceneggiatura dello stesso regista, supportato dalla penna di Kim Henkel, Non aprite quella porta viene ambientato nell’estate del 1973 nel Texas, dove atti vandalici stanno ricostruendo demoniache strutture utilizzando i corpi dei defunti prelevati dalle loro tombe profanate. Dato il fatto che sta scandalizzando e facendo preoccupare gli abitanti della zona, un gruppo di studenti ed amici del college ha deciso di ispezionare la bara del defunto nonno di due loro membri, i fratelli Sally e Franklin, trovandola fortunatamente intatta.
Non volendo “sprecare” l’occasione della gita fuori porta, i ragazzi scelgono di andare nella vecchia casa d’infanzia dei due fratelli che si trova poco lontano, anche perché il carburante del loro veicolo sta quasi per finire e, data l’impossibilità di fare immediatamente rifornimento per via della crisi, hanno bisogno di un luogo dove potersi fermare. La loro spensierata gita si trasformerà ben presto in un sadico gioco al massacro.
Non aprite quella porta, la recensione: Tobe Hooper reinventa l’horror moderno
Vedete quell’edificio laggiù? È dove li ammazzano. Gli danno una botta sul cranio con una mazza.
Se, dopo il passaggio di ben 50 anni, si continua a riferirsi a The Texas Chain Saw Massacre come uno dei migliori film horror di sempre, un motivo ci sarà. Cinque anni dopo il suo esordio in regia con Eggshells, il regista statunitense Tobe Hooper decide infatti nel 1974 di stravolgere quasi completamente il genere dell’orrore sul grande schermo, indirizzando verso una via che sarà poi solcata dalla stragrande maggioranza degli autori del cinema horror negli anni a venire.
Nella storia del cinema è sempre complicato e delicato riuscire a tracciare delle nette linee di demarcazione, ma resterebbe alquanto agevole indicare Non aprite quella porta quale chiave di svolta per il cinema del sangue e del brivido sotto due speciali punti di vista, uno più “autoriale” e l’altro sotto il profilo “commerciale“. Per quanto riguarda il primo aspetto, tenendo ovviamente a mente il cinema dei maestri (come ad esempio Alfred Hitchcock, Mario Bava, Dario Argento e non solo), il film di Tobe Hooper viene di fatto etichettato come vero precursore dello slasher.
Sotto questa speciale lente d’ingrandimento, Non aprite quella porta riesce infatti a codificare gli elementi principali di questo lacerante sottogenere, come ad esempio la presenza di numerose vittime adolescenziali, un serial killer che presenta una specifica caratterizzazione fisica (possibilmente una maschera ed un’arma tagliente ben definita) e la presenza della c.d. final girl. Una codificazione che darà i natali ai prossimi titoli di successo come ad esempio Halloween, Nightmare, Venerdì 13 e Scream, collegandosi in questo modo al prossimo aspetto epocale del film di Tobe Hooper.
Nel corso degli anni, infatti, il pubblico ha conosciuto personaggi spaventosi come il “Mostro” del film di Fritz Lang del 1931, il Norman Bates di Psycho, per non parlare della “prima mandata” dei grandi mostri negli anni ’30, con Dracula, Frankenstein e l’Uomo Invisibile. Ma se i primi due esempi si riferiscono ad umani assassini e gli ultimi a fenomeni fantastici e paranormali, Non aprite quella porta crea di fatto una versione ibrida, attraverso le nuove maschere del cinema horror moderno.
Il killer cannibale del personaggio del Leatherface è di fatto un “semplice” essere umano; tuttavia, l’intuizione estetica della maschera di pelle (assieme all’imponente struttura fisica e brutalità delle sue esecuzioni) permette di conferirgli un’aurea demoniaca, sovrannaturale. Ad ogni modo, Leatherface non introduce in questo modo “solo” un essere umano dalle fattezze mostruose, ma spinge ad immaginare un villain più complesso di quello che sembra. Un elemento questo che, ad un occhio poco attento magari, potrebbe sicuramente sfuggire, ma l’energumeno nel corso del film cambia maschera per ben 3 volte e cambiando a suo modo personaggio a seconda della circostanza, arrivando a cambiare anche “genere”.
Nel film viene così presentato un killer che riversa sugli altri la violenza ricevuta nel corso degli anni da quei membri della stessa famiglia dei quali ha timore e allo stesso tempo rispetto, come si evince anche dal rapporto accennato con il nonno. Una condizione mentale completamente distrutta, azzerata, tanto che l’attore che interpreta il Leatherface, Gunnar Hansen, si è recato in un istituto per disabili dai quali apprendere movenze ed atteggiamenti, arrivando anche a quei terrificanti mugugni (più grugniti, anche e soprattutto per una funzione narrativa alla quale si arriverà a breve) che non fanno altro che accrescere il disagio e l’angoscia durante la visione.
Un espediente, questo della specifica caratterizzazione fisico-estetica ma anche psicologica, che farà infatti la fortuna dei franchise sopracitati, portando alla nascita di terrificanti icone del cinema horror come quella di Michael Myers, Freddy Krueger, Jason e Ghostface. Già, franchise, perché la potenza sprigionata sullo schermo e l’irresistibile fascino da brivido provato verso queste figure porterà sempre alla nascita di saghe di successo, con quella stessa di Non aprite quella porta che al momento vanta ben 9 capitoli. Arrivando a citare i numeri, inoltre, il film del 1974 ha superato solo negli U.S.A. ed in Canada i 30 milioni $, arrivando ad essere uno dei più grandi successi del cinema indipendente a fronte di un budget di appena 140.000$.
Non aprite quella porta, la recensione: le ossa abbandonate dell’America cannibale
Il film che state per vedere è un resoconto della tragedia che è capitata a cinque giovani, in particolare a Sally Hardesty e a suo fratello invalido Franklin. Il fatto che fossero giovani rende tutto molto più tragico.
Al di là del fattore “slasher“, nella creazione della prima vera maschera del cinema horror moderna e la codificazione delle regole di questo speciale sottogenere, Non aprite quella porta è anche una lungimirante cartolina degli avvelenati U.S.A. di quegli anni. A dir poco brillante per Tobe Hooper rendere il film già dal suo incipit un vero e proprio found-footage, sebbene lontano dal significato che quest’altro sottogenere acquisterà nel corso degli anni.
Una voce narrante introduce infatti la sorte dei protagonisti, rendendo la visione in sé del film una testimonianza degli orrori che li ha visti vittima. Il sadico semirealismo restituito su schermo da Hooper viene intensificato non soltanto dalla collocazione storico-politica dell’opera, ma anche e soprattutto per la sua messa in scena. Per quanto riguarda il primo aspetto, il regista riprende la “scuola romeriana” nel mostrare contraddizioni, vizi ed acidi costrutti del popolo americano, andando incredibilmente anche oltre.
Gli anni sono infatti quelli del pieno mandato di Richard Nixon e dello scandalo Watergate, della fine dell’estenuante Guerra del Vietnam che stava evocando sempre di più i suoi fantasmi, della devastante crisi energetica (non a caso il fattore di fatto scatenante il massacro del film derivi dall’impossibilità di fare rifornimento). Si stava vivendo così una nuova Grande Depressione economica, sociale e politica, il fantomatico “american dream” è ufficialmente sepolto e riesumato solo per diventare l’emblema della fine, gli omicidi sono all’ordine del giorno e il tutto è destinato a marcire.
Tobe Hooper imprime questa fotografia storica dell’America rurale durante l’intera visione del suo film, mostrando su schermo un Texas che brucia, abbandonato a sé stesso, restituendo uno scenario da film post-apocalittico. Una storia americana impersonata in tutto e per tutto dal folle cannibalismo capitalista della famiglia antagonista, capace di lasciare solo ossa e dolore nella sua voracità. Non a caso, è anche da notare come i membri della svitata famiglia del Leatherface siano tutti uomini, di 3 generazioni, con soprattutto il “vampirico” nonno figlio di un’America mummificata.
Oltre al discorso più puramente e strettamente politico, si accennava poc’anzi come il film di Tobe Hooper riesca ad andare anche oltre, attuando un vero e proprio home-invasion anche in casa sociale. Sotto un primo aspetto, in Non aprite quella porta si evince anche un’importante analisi circa il ruolo del personaggio femminile. Il regista mostrerebbe nel film una più o meno velata misoginia sempre da parte di quella parte malsana della società statunitense: mentre i personaggi maschili, di fatto, subiscono fatali esecuzioni (estremamente dolorose ma pur sempre immediate), il trattamento nei riguardi dei personaggi di Pam e Sally costituiscono delle sadiche torture soprattutto fisiche ma anche psicologiche.
La prima vedrà la stessa sorte fatale dei suoi compagni, non prima però di aver assistito con i suoi stessi occhi ad uno sventramento (tortura psicologica) mentre, il gancio alla quale era stata bestialmente appesa, stava facendo il resto (tortura fisica). Sally riuscirà a salvarsi, impersonando quella che sarà la prima final girl della storia del cinema horror, ma comunque non prima di ricevere anch’essa il brutale trattamento. La ragazza sarà infatti la sola a riuscire a salvarsi dal massacro, con la resilienza della stessa portata metaforicamente in salvo dallo stesso regista in questo delicato discorso di genere.
Non aprite quella porta, inoltre, risulta lungimirante anche per un altro aspetto, specialmente per quanto riguarda il contesto storico del 1973-1974, ovvero quello del vegetarianismo. La pratica alimentare non è stata ovviamente inventata da Hooper, ma il film resta probabilmente ancora oggi il più “violento” anche da questo punto di vista. Quello mostrato in Non aprite quella porta è infatti un gioco al massacro dove gli esseri umani vengono direttamente paragonati a bestie da macello: i continui riferimenti sulle brutali tecniche utilizzate per sopprimere gli animali da convertire in carne, o la natura cannibale della folle famiglia antagonista.
Continui parallelismi tra uomini e bestie portati su schermo non solo nel modo in cui le stesse vittime vengono giustiziate ma anche, ad esempio, nel collegamento tra gli animali impagliati e i cadaveri delle tombe profanate posizionati a mo’ di statua. Lo stesso Hooper affermerà come si sia accorto che il suo fosse “un film sulla carne“, mettendo sul tavolo il discorso dell’identità e spreco alimentare, oltre che quello relativo agli allevamenti intensivi.
Non aprite quella porta, la recensione: un sadico e brutale gioco al massacro
Dai, Franklin, sarà un viaggio divertente.
Non aprite quella porta di Tobe Hooper è dunque un film dalla fondamentale importanza storica e sociale, oltre che rimanere uno dei migliori film horror di sempre proprio per l’efferatezza e l’incredibile perizia tecnica mostrata su schermo. Ricordando la disponibilità di un risicato budget produttivo, il film è la rappresentazione di un geniale contributo artistico da parte del suo autore, che costruisce un’opera particolarmente violenta dove la macchina da presa la fa da padrone.
In Non aprite quella porta si assiste infatti ad una rarefatta costruzione della tensione e dell’orrore che parte già dal suo primo atto, dove il regista si sofferma maggiormente nel mostrare le critiche condizioni sociali ed economiche del popolo americano. Nonostante questa costruzione più analitica, il film inizia comunque a rivelare il suo lato marcio e malsano specialmente grazie all’invadente comparto sonoro, il quale vibra e stringe i protagonisti in una morsa particolarmente opprimente, senza poter dimenticare anche la tecnica di ripresa adottata che costringe l’occhio dello spettatore a ritrovarsi in situazioni funzionalmente suggestive.
Affascinante in tal senso resta ovviamente anche la bruciata messa in scena elaborata da Tobe Hooper, che dopo l’epocale The Wicker Man dell’anno precedente pone un disturbante film horror sotto la radiosa luce del sole, per poi cambiare radicalmente registro all’inizio dei “giochi”. Il ritmo disteso e dilatato del primo atto esplode con l’entrata in scena del Leatherface, la quale impronta la visione con una frenesia ed una violenza disarmante. Quella che diventerà di fatto la Casa dei 1000 corpi per Rob Zombie si trasforma così in una prigione di dolore e morte, con Hooper che non perde mai il controllo delle varie esecuzioni attuando un colpo d’occhio decisamente affascinante.
Le brutali esecuzioni del Leatherface, infatti, sono sicuramente efficaci nel sbigottire lo spettatore – specie per via della mirabile gestione di orrore e tensione delle stesse – ma il più resta quasi sempre off-screen, lasciando alla mente di chi guarda un lacerante gioco di immaginazione. Il non visto spinge infatti solo a suggerire lo splatter ed il gore delle varie sequenze di violenza, senza mai esplicitare la stessa ed anzi costruendo un perfetto mixaggio tra orrore-action e brutale con una tensione lenta e dolorosa. Dalla radiosa ed intensa luce del sole, anche la palette cromatica tende radicalmente ad incupirsi, quasi trasformandosi nella gotica casa della follia.
Tra le torturanti sonorità della colonna sonora, realizzata dallo stesso Tobe Hooper in collaborazione con il musicista Wayne Bell, vi rientra anche il terrificante suono della motosega del Leatherface, vero e proprio biglietto da visita alla stanza del dolore. Nonostante Sally riesca a mettersi in salvo, quella stessa motosega del Leatherface diventerà in qualche modo leggendaria nella scena che conclude il capolavoro del regista, con quella tramortente danza macabra che restituisce sul grande schermo solo profonda angoscia e malessere.
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