Recensione del film Vermiglio

Vermiglio è il candido sogno di una tradizione che supera le stagioni

Vermiglio è il secondo film scritto e diretto da Maura Delpero, candidata ai Nastri d’Argento per la Miglior regista esordiente con il precedente Maternal. Presentato in anteprima all’81° Festival del Cinema di Venezia, Vermiglio è stato tra le migliori sorprese dell’intera edizione, arrivando anche ad aggiudicarsi il Leone d’Argento – Gran premio della giuria. Il film è il sogno ad occhi aperti di una tradizione avvolta dalla neve invernale dell’omonimo paesino italiano, quello stesso sogno di amore, maternità ed emancipazione insidiato dai drammi della Seconda Guerra Mondiale e da una condizione sociale opprimente.

Vermiglio, la trama del film di Maura Delpero

Su sceneggiatura della stessa regista Maura Delpero, Vermiglio è stato il film italiano più apprezzato dalla critica del Concorso all’81a edizione del Festival di Venezia, uscito trionfante con la vittoria del Leone d’Argento – Gran Premio della giuria. Stando al sito ufficiale della Mostra Cinematografica, la sinossi ufficiale di Vermiglio recita:

In quattro stagioni la natura compie il suo ciclo. Una ragazza può farsi donna. Un ventre gonfiarsi e divenire creatura. Si può smarrire il cammino che portava sicuri a casa, si possono solcare mari verso terre sconosciute. In quattro stagioni si può morire e rinascere. Vermiglio racconta dell’ultimo anno della Seconda guerra mondiale in una grande famiglia e di come, con l’arrivo di un soldato rifugiato, per un paradosso del destino, essa perda la pace, nel momento stesso in cui il mondo ritrova la propria.

Recensione film Vermiglio Maura Delpero

Vermiglio, la recensione: l’intimo sogno di una candida contraddizione

Viva gli sposi!

Ci si ritrova a scrivere la recensione di Vermiglio avendo ancora in mente il caldo abbraccio della sua nevosa messa in scena, per una contraddizione tutta umana e cinematografica che lega l’intera visione. Il film presentato in anteprima all’81a edizione del Festival di Venezia, vincitore del Leone d’Argento, affonda le sue radici nella memoria della stessa regista prima che della sua sfera storica di riferimento,

La contraddizione appena accennata (e che tornerà continuamente in questa analisi) è infatti presente già dalla genesi del film, il quale porta sostanzialmente su schermo l’esperienza onirica di un caloroso sogno. Successivamente alla perdita del padre, la regista verrebbe infatti in qualche modo rincuorata da un sogno che vede il suo stesso genitore protagonista, sebbene nei panni mai visti di un bambino di 6 anni. Il dramma interiore vissuto trova così nel sogno una certa pace dei sensi, sospesa in quella dimensione tra realtà e finzione, tra memoria ed immaginazione, che nel cinema si traduce inevitabilmente alla costruzione di mondi.

Una discordanza che porta a creare infatti lo stesso paesino che conferisce titolo all’opera, con l’isolato e naturalistico comune della Val di Sole che rispecchia geograficamente e metaforicamente una terra di confine. In Vermiglio si respirano gli anni forse più decisivi della nostra Storia recente, quelli della fine della Seconda Guerra Mondiale. Sebbene la sua sostanza sia salda e ben presente negli stravolgimenti soprattutto sociali apportati, la macropolitica tuttavia resta paradossalmente off-screen, con il devastante conflitto mondiale che si fa piccolo e lontano dinnanzi i drammi e le piccole gioie vissute da un microcosmo decisamente vivo.

Prendendo come vera protagonista la metamorfosi dello stesso paesino di Vermiglio, povero ed abbandonato a sé stesso, in questo naturalistico folkdrama si assiste al radicale ed al contempo immutabile cambio delle stagioni, con l’immancabile neve delle zone montane sempre pronta a poggiarsi lentamente su personaggi e scenografie. Delicatezza e rispetto del tempo sono infatti le parole d’ordine del tatto umano mostrato dalla regista Maura Delpero, la quale enfatizza nella sua messa in scena un poetico lirismo nella costruzione dell’immagine e nella livellazione del sonoro.

Speciale in tal senso il lavoro di direzione della fotografia attuato da Michail Kričman nel restituire un immaginario bucolico che si permea delle candide tonalità che spaziano dal bianco al celeste, lasciando spazio in scena al verde spento e muschioso. Una costruzione pittorica dall’impatto ipnotico soprattutto nel definire i contorni degli interni, illuminati fiocamente e dal quale echeggiano i suoni del vissuto.

Nella visione di Vermiglio, infatti, a prendere spazio sono maggiormente i silenzi ed i sussurri che comunque riescono a fare rumore in un’ambientazione austera del genere, specialmente all’interno delle affollate camere da letto. Un dimensione anche in questo caso famigliare che fanno di Vermiglio un film sincero ed intimo, con la memoria collettiva ed individuale che vengono rievocate nella rigorosa messa in scena con speciale verosimiglianza di chi la gavetta l’ha fatta proprio nel cinema documentaristico.

Il dialetto, gli usi e costumi divengono così un indissolubile collante per questa rievocazione storica, che permette allo spettatore di catapultarsi in una terra dal sapore antico, sì, ma arrivando anche a quello fantastico ed avvicinandosi così ai confini di miti e leggende popolari.

Una rievocazione “sincera” ed in qualche modo ci si potrebbe spingere a definire “onesta” anche dal connubio professionale ottimamente gestito nel cast. Tra interpreti maggiormente navigati (come per un Tommaso Ragno lirico ed autorevole) e quelli alle prese per la prima volta con un set cinematografico, nascono personaggi veri e complessi, con un occhio speciale a quelli femminili ai quali si arriverà a breve.

Intaccata direttamente dal dramma di un evento apocalittico quale la Seconda Guerra Mondiale, che ne riversa ad ogni modo i fragorosi effetti, Vermiglio si mostra come una palla di vetro innevata e riposta nel cassetto della memoria, tanto intima ed individuale quanto storica e collettiva.

Vermiglio, la recensione: la contraddizione di un’ambiguità tutta umana

La scuola è un grande insegnamento, perché ci insegna i nostri limiti.

Un film dunque che porterebbe a rievocare usi e costumi di una tradizione allontanatasi nel tempo, ma rimasta fortemente viva nella memoria. La trasformazione sociale ed interpersonale di un piccolo paesino sperduto nel nord Italia che, tuttavia, abbraccia anche il lato umano del suo racconto, tratteggiando una serie di analisi non solo universali ma anche e soprattutto attuali.

Così come la neve continua ad imbiancare la visione di Vermiglio attraverso le stagioni, così è l’amore provato dai suoi personaggi che scalda le algide giornate di montagna ma capace, allo stesso tempo, di lasciare anche le sue cocenti ferite. L’amore presente nel film è infatti ancora una volta contraddittorio, ambiguo, portando a complessi sentimenti tra padri e figlie, mogli e mariti, maestri ed alunni che continua a mostrare le sue luci e le sue ombre attraverso un occhio squisitamente umano.

Dopo aver affrontato un affascinante paradosso nel precedente Maternal, circa la scelta e l’obbligo di diventare “madre” (sia in senso spirituale e sia in quello biologico), Maura Delpero torna a cimentarsi sullo schermo con la sfida ai taboo che, soprattutto, ingabbiano specialmente la condizione femminile. A tornare in questo caso non è “solo” il delicato tema ricondotto alla maternità, ma quanto più in generale ad una ricerca dell’emancipazione che passa tuttavia attraverso un percorso sterrato.

La linea tematica di Vermiglio viene così ancora una volta portata avanti con una certa ambivalenza, la quale non fa sconti verso i suoi personaggi o lo stesso contesto storico. Tra le abitazioni di questo errante paesino di montagna non poteva non diffondersi infatti l’ombra della religione (cattolica) e dei suoi dogmatismi, la quale aleggia sia come spirito guida e rifugio nel quale provare a nascondersi che come gabbia castratrice dei propri istinti e desideri.

Una trattazione enigmatica e difettosamente umana che viene incarnata in un certo senso proprio dal personaggio di Cesare (ispirato a memorie personali della stessa regista) che, proprio come Vermiglio stesso, ricoprirebbe un ruolo da terra di confine tra il patriarcato ed il paternalismo. Quello interpretato con pacata classe da Tommaso Ragno resta il personaggio principale del film, il satellite attorno al quale orbita il suo personale microcosmo di piccole grandi donne, un pater familias che si ergerebbe a colto custode della memoria,

In una società di stampo patriarcale (tanto per il periodo storico di riferimento quanto per il legame con la tradizione di periferia), quella di Cesare resta una voce nel coro sicuramente autorevole e che, nei fatti, si esporrebbe sostanzialmente come paternalistica nel decidere il destino delle donne di casa, le quali vorrebbero poter tracciare autonomamente il proprio percorso di vita. Se la scuola è un grande insegnamento perché mostra i nostri limiti, la famiglia diviene così una scuola di vita e gli insegnamenti imposti dal maestro pater familias conducono (direttamente o indirettamente) a sviscerare l’emancipazione femminile sotto 3 profili.

Attraverso la sua storia ambientata 80 anni distanti nel tempo, Vermiglio tratteggia così una moderna e necessaria liberazione della donna dai taboo e di poter decidere il proprio destino, sia per quanto riguarda la costruzione di un autonomo nucleo famigliare, sia nel scegliere e controllare un degno percorso di crescita professionale e sia nel dare libero sfogo ai propri istinti e desideri naturali, specialmente sessuali.

La possibilità dunque di seguire liberamente il proprio cammino ma, proprio come mostrato anche in Maternal, il film di Maura Delpero sfugge da banali e semplicistiche moralità, tendendo ad indicare anche gli imprevisti, gli ostacoli e la sofferenza che questa libertà può comportare. Come però viene suggerito in rapida successione nel finale, Vermiglio incoraggia alla libertà di sbagliare e commettere errori, facendo perno anche su una vitale solidarietà femminile e tra sorelle che non risparmia scontri, invidia e malumori.

Nell’attualizzare tematiche ancorate ad una tradizione storica impressa nella memoria, Vermiglio si erge a bucolica cartolina di una complessa ambiguità profondamente umana. La trasparenza del film sta invece nella pacata e rigorosa eleganza della sua messa in scena, capace di sprigionare da ogni inquadratura la silente potenza evocativa della sua autrice.

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Vittorio Pigini
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Laureato in Giurisprudenza, diplomato in Amministrazione Finanza e Marketing, ma decisamente un Hobbit mancato. Orgogliosamente nerd e da sempre appassionato al mondo cinematografico, con il catartico piacere per la scrittura. Studioso della Settima Arte da autodidatta, con dedizione e soprattutto passione che mi hanno portato a scrivere di cinema e ad avvicinarmi alla regia.