Recensione film Sergio Leone Per un pugno di dollari

L’italiano che reinventò il western Per un pugno di dollari

Per un pugno di dollari è il primo capitolo della leggendaria Trilogia del dollaro di Sergio Leone, dall’importanza storica imprescindibile per il genere per averne codificato regole ed archetipi. Il film del 1964 mantiene un legame “speciale” con lo splendido Yojimbo – La sfida del samurai di Akira Kurosawa che, purtroppo per il regista romano, portò ad una disputa legale per plagio divenuta ormai celeberrima.

Fatto sta come Leone abbia preso un genere cinematografico ormai in declino, il western, e ne abbia importato tutta la sua passione ed il suo genio artistico, grazie anche e soprattutto alla scoperta di un “supereroe” come Clint Eastwood. Ecco di seguito la recensione di Per un pugno di dollari.

Per un pugno di dollari, la trama del film di Sergio Leone con Clint Eastwood

Su sceneggiatura dello stesso Sergio Leone, coadiuvato in sede di scrittura anche da Duccio Tessari e Fernando Di Leo, Per un pugno di dollari costituisce il primo tassello della leggendaria Trilogia del dollaro ideata dal regista romano, completata in seguito da Per qualche dollaro in più e Il Buono, il Brutto e il Cattivo. Il film del 1964 vede un pistolero errante raggiungere uno spettrale paesino sul confine tra Stati Uniti e Messico, il quale viene dominato dalla guerra tra due potenti famiglie locali.

Per ottenere un posto dove sostare per qualche giorno, del rifornimento e qualche soldo, il pistolero si immetterà sempre di più nella disputa famigliare decretandone le sorti, ma dovrà stare particolarmente attento allo spietato Ramon.

Recensione Per un pugno di dollari

Per un pugno di dollari, la recensione: l’intuizione dell’italiano che reinventò il western

Prepara tre casse.

<<Leone creò nuove maschere per il western, e costruì nuovi archetipi per un genere che aveva bisogno di influenze fresche… era come la revisione di un genere in qualche modo, o un’evoluzione del genere, perché il genere western stava diventando vecchio in quel tempo>>. Occorrerebbe partire da queste parole di un cineasta come Martin Scorsese per cercare di evidenziare l’importanza storica di questo imprescindibile film.

Sono innegabili i punti di congiunzione con l’incredibile La sfida del samurai di Akira Kurosawa, specialmente per una narrazione ripresa quasi nella sua interezza, tanto da arrivare ad indentificare il film di Sergio Leone come un remake non dichiarato. Il regista, tuttavia, si tiene fuori da basse operazioni di ruberia ed adotta al contrario un’operazione non soltanto intelligente e “genuina”, ma anche necessaria per la storia del cinema.

Proprio come il protagonista del film, il regista romano si trova nella delicata posizione in mezzo a due fuochi, quello orientale e quello occidentale. Sergio Leone riprende il genere che più di tutti intendeva portare sullo schermo, ovvero quello stesso western che viveva un periodo storico di difficoltà e che necessitava di un vero e proprio restyling artistico. Leone con i celeberrimi “spaghetti western” non inventa sicuramente il genere, già presente anche nel nostro cinema con ad esempio Una signora dell’Ovest di Carl Koch o Il fanciullo del West di Giorgio Ferroni, ma attualizza un incontro culturale e stilistico per codificarne definitivamente le sue regole moderne.

La base di partenza è ovviamente il cinema di John Ford e del suo eroe Wayne: il selvaggio west, la polvere, i saloon, gli sceriffi che provano a portare giustizia in una terra desolata e conquistata dai fuorilegge. Ma quel western definibile classico di Ombre rosse e Rio Bravo stava andando sempre più stretto ad un periodo, come quello degli anni ’60, caratterizzato da continue rivoluzioni.

Quel cinema per certi versi edulcorato ed epicamente solare e senza macchia si scontra così con l’altro polo del grande cinema internazionale, ovvero quello giapponese di Kurosawa. Da I sette samurai a Sanjuro passando, ovviamente, per La sfida del samurai, i film del maestro nipponico non avevano di fatto nulla di western, ambientandosi in fin dei conti nel periodo Edo giapponese ed arrivando infatti ad entrare nel genere ad hoc indentificato come jidai-geki. Eppure, l’essenza e sostanza di questi film erano spiritualmente interconnessi con l’idea di Sergio Leone del cinema western.

Le gloriose avventure di John Ford vedono così protagonista non l’eroe senza macchia ma un forestiero, l’Uomo senza nome, dall’ambigua moralità che lo rende assieme a tutti gli altri personaggi più “realistico”, per quanto la definizione possa essere oggetto di ampissima disamina. Gli alti rimandi al senso di giustizia e alla redenzione vengono qui riportati saldamente con i piedi per terra, rivestiti di stivali impolverati, con il vil denaro che nella maggior parte dei casi diventa il vero motore del racconto.

Questo si spoglia così di epicità per diventare una “semplice” risoluzione di conti, con gli eroi che si sporcano e prendono le sudice vesti dell’antieroe amorale e non anti-morale. La povertà, la cupezza e la violenza del bianco e nero giapponese sposa così le gesta e l’ambientazione baciata dal radioso sole del cinema d’Oltreoceano, in uno sposalizio tutto italiano.

A rendere speciale lo spaghetti-western di Sergio Leone non è infatti “solo” una sporcizia ed un’escalation di violenza forse mai vista per il genere (tanto da non far accogliere positivamente il film in maniera unanime, anzi), ma anche uno speciale connubio con il lato umoristico della stessa visione. In Per un pugno di dollari non mancano infatti personaggi macchiettistici, su tutti quello del becchino ma anche il campanaro e non solo, che portano ilarità negli scambi dialettici con il protagonista.

Ancora una volta, Leone non ha inventato l’umorismo in questo speciale genere d’avventura, ma il suo legame con la sfrenata e crivellata violenza dell’immagine costituisce un’unione vincente e che sarà duratura negli anni a venire. Un’ulteriore sfida vinta dal regista è poi anche quella della destrutturazione del ruolo femminile nel cinema western, spesso assente o comunque dama da raggiungere e proteggere per l’eroe. Lasciando le orme in un mondo più violento, rozzo e “realistico”, poco spazio viene infatti concesso all’amore nella sua concezione più romantica, presentando anche personaggi femminili con le unghie, capaci di sapersi difendere da sé o comunque detentrici di una propria storia e sentimenti da rivendicare.

Arriva infine l’ultimo elemento che rende Per un pugno di dollari un titolo fondamentale per il genere, ovvero quello della sua atemporalità. Se il cinema statunitense era solito presentare l’iconografia dell’epopea da selvaggio west, nello scontro anche e soprattutto con il popolo Apache e, prendendo ad esempio il cinema di riferimento giapponese, Kurosawa immergeva la narrazione dei suoi film nel periodo Edo, Sergio Leone nel suo Per un pugno di dollari presenta un’ambientazione asettica da tempo e spazio. Ci si trova ovviamente dinnanzi una storia ambientata nel confine messicano ottocentesco, ma ciò resta sempre un elemento a margine per contestualizzare la storia dei personaggi ammirata sullo schermo.

Per un pugno di dollari, la recensione: uno spettacolo totalizzante sulle immortali note di Morricone

Al cuore Ramon, se vuoi uccidere un uomo devi colpirlo al cuore.

Da mirabile alchimista e facendo abbracciare l’indissolubile tradizione americana con lo rivoluzionario stile orientale, il personale genio artistico di Leone con Per un pugno di dollari permette di definire quindi le regole del western moderno. Ma, al di là dell’importanza storicistica del titolo in sé, il film del 1964 porta sul grande schermo uno spettacolo davvero alto sotto tutti i punti di vista.

Partendo innanzitutto dal coinvolgimento narrativo, la storia del pistolero errante che si introduce nella faida famigliare della zona porta inevitabilmente lo spettatore a fare il tifo per l’antieroe protagonista. Lo spettacolo è totalizzante nella messa in scena, attraverso una grande perizia tecnica nella costruzione dell’immagine, passando per un ottimo lavoro nella direzione fotografica e nella costruzione scenografica, oltre all’esplosivo contributo apportato dal montaggio.

Un racconto che si dirama tra duelli, inganni, strategia del doppiogioco e colpi di scena, mettendo sempre in primo piano i suoi protagonisti. Impossibile infatti non fare menzione del lussuoso pregio di Leone di aver definitivamente lanciato la figura di Clint Eastwood nel grande cinema, dopo una serie di apparizioni su schermo poco incisive. Da vero e proprio sconosciuto, il californiano dagli occhi di ghiaccio diviene una delle icone più apprezzate nella Settima Arte. Stivali, poncho, cigarillo, cappello, sguardo arcigno, grilletto facile, entrata epica da onorevole fuorilegge, quello interpretato da Clin Eastwood è un vero e proprio supereroe in difesa dei propri interessi.

Ma un (anti)eroe non sarebbe tale senza la sua nemesi, un villain tanto forte quanto respingente da essere irresistibile. Ne è un esempio il cinico Ramon interpretato dal sempre folgorante Gian Maria Volonté, anch’egli agli inizi della sua avventura cinematografica in seguito ad una tradizione teatrale sempre portata con classe e forza anche sullo schermo. Senza quindi nulla togliere agli altri interpreti in parte, come Marianne Koch, Wolfgang Lukschy e José Calvo, è indubbio come al centro della narrazione e dello spettacolo di Per un pugno di dollari ci sia il duello tra i pistoleri.

Ultimo ma non assolutamente per importanza, se il cinema di Sergio Leone è entrato prepotentemente nei libri di scuola è anche e soprattutto grazie ad un Signore di nome Ennio Morricone. Rivoluzionarie già dai titoli di testa, le note del futuro maestro di alcune tra le più immortali colonne sonore del cinema non solo non abbandoneranno più la visione, ma nemmeno la filmografia dello stesso Leone, con entrambi destinati a resistere con alto prestigio al passare del tempo.

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Vittorio Pigini
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Laureato in Giurisprudenza, diplomato in Amministrazione Finanza e Marketing, ma decisamente un Hobbit mancato. Orgogliosamente nerd e da sempre appassionato al mondo cinematografico, con il catartico piacere per la scrittura. Studioso della Settima Arte da autodidatta, con dedizione e soprattutto passione che mi hanno portato a scrivere di cinema e ad avvicinarmi alla regia.