Classifica dei migliori e peggiori film del Concorso di Venezia 81

Festival di Venezia 2024: la classifica di tutti i film del Concorso dal migliore al peggiore

Il Festival di Venezia 2024 si è concluso con la consegna dei premi ufficiali, decretando il nuovo film di Pedro Almodovar La stanza accanto quale Leone d’Oro dell’81a edizione della Mostra del Cinema. Un Concorso composto da grandi titoli e cocenti delusioni, registrando anche il ritorno di grandi registi come la prima volta al Festival di molti autori da tenere d’occhio. Di seguito la classifica dei film in Concorso a Venezia81, dal migliore al peggiore.

La classifica dei film in Concorso al Festival di Venezia 2024

21 sono i titoli presenti in Concorso all’81° Festival del Cinema di Venezia, provenienti da tutto il mondo (4 dei quali sono italiani) tra film più propriamente d’autore ed altri definibili volgarmente con il termine “commerciali”. Grandi registi come Pedro Almodóvar, Wang Bing e Luca Guadagnino tornano sulla scena, ma la Mostra del Cinema di Venezia offre anche una preziosa opportunità a nuovi autori alle prese con il loro debutto al festival, come Maura Delpero, Giulia Steigerwalt, Brady Corbet e Dea Kulumbegashvili. Ecco di seguito la nostra classifica di gradimento per il Concorso di Venezia 81, dal Migliore al Peggiore.

Queer tra i migliori film del Festival di Venezia 2024

1- Queer, di Luca Guadagnino

Tratto dall’omonimo romanzo di William S. Burroughs, Queer segna il ritorno dell’acclamato Luca Guadagnino al Festival di Venezia dopo 2 anni da Bones and all, vincitore del Premio Marcello Mastroianni a Taylor Russell e del Leone d’argento alla regia. Ambientato nella Città del Messico degli anni ’50, il film segue il protagonista Lee affogare i suoi piaceri nelle droghe, nell’alcol e nelle avventure notturne con giovani ragazzi. L’incontro con uno di loro, Allerton, cambierà radicalmente la sua vita, facendogli perdere le certezze che pensava di aver ormai solidificato.

La proverbiale estetica nella messa in scena di Guadagnino spinge lo spettatore ad un vero e proprio viaggio identitario, che passa attraverso il mondo onirico ed il piacere della carne. Queer è probabilmente anche la miglior prova di Daniel Craig, l’attore britannico divenuto particolarmente celebre al grande pubblico ultimamente grazie a 007 e la saga di Knives Out, per un film che ha incantato l’81a edizione del Festival di Venezia.

2- El jockey, di Luis Ortega

Secondo film presentato in Concorso è invece El Jockey, per la nuova regia del regista argentino Luis Ortega che si era già fatto conoscere a livello internazionale con il precedente L’angelo del crimine del 2018. Ambientato tra le strade della malavita di Buenos Aires, il film spiccatamente grottesco e surreale è un’errante ed introspettiva ricerca della propria identità, finendo con una totale perdita del sé che viene affogato dal disagio di vivere.

El Jockey fa del teatro dell’assurdo la sua arma vincente, regalando più di qualche siparietto divertente e divertito oltre ad evocative idee di grande cinema. Protagonisti di questa visione fuori dagli schemi sono il fantino Nahuel Pérez Biscayart e Ursula Corbero con quest’ultima, la Tokyo della serie La casa di carta, che rilascia una grande prova sullo schermo tra emotività e fascino mozzafiato.

3- Mò shì lù, di Yeo Siew Hua

Con il titolo internazionale Stranger Eyes, il terzo film del regista di Singapore Yeo Siew Hua rappresenta forse uno dei più affascinanti dell’intera Mostra 2024 specialmente per la sua sceneggiatura, tanto nel tema trattato quanto nel suo sviluppo. La storia segue le vicende di una bambina scomparsa e con i giovani genitori che, poco dopo, iniziano a ricevere DVD in casa che li ritraggono durante le loro azioni quotidiane. Si convincono fin da subito che il loro stalker sia il responsabile del rapimento della figlia e chiederanno aiuto alla polizia per trovarlo.

Poggiandosi sul grande cinema del passato (ovviamente La finestra sul cortile ma anche la tradizione più vicina al cinema orientale), si tratta di un thriller che instaura una pervasiva analisi sul ruolo dello sguardo nella società moderna. Essere costretti e portati ad osservare le vite degli altri per via dei mezzi di comunicazione, delle condizioni politiche e della caustica invidia sociale, imprimendo nelle vite altrui le proprie aspirazioni e desideri ma, allo stesso tempo, rispecchiarsi nei propri fallimenti. Un vouyerismo che tende a cambiare repentinamente la rispettiva parte attiva e passiva, dove lo sguardo si tramuta anche nella capacità di dare degna attenzione al prossimo.

4- Jouer avec le feu, di Delphine e Muriel Coulin

Del terzo film delle sorelle e registe francesi Delphine e Muriel Coulin, l’elemento che salta immediatamente all’occhio durante la visione di Jouer avec le feu è la realistica ed emozionante costruzione delle dinamiche interpersonali strutturate dalle due registe, in un film dove le donne vengono completamente tenute fuori. Ne esce un toccante racconto famigliare tra un padre 50enne vedovo e i suoi due figli i quali, tuttavia, si stanno allontanando sempre di più dalla sua protezione.

Il primo, Louis, sta infatti pianificando il trasferimento per la vita universitaria mentre il secondo, Fus, sta coltivando ideologie diametralmente opposte da quelle del padre. Affascinato dal senso di appartenenza e della violenza, Fus è infatti ormai entrato nel giro di militanti di estrema destra.


Jouer avec le feu è una visione intelligente, pragmatica ed emotiva, attribuita allo spaccato della famiglia (allargato alla società) che le registe imprimono in sede di scrittura. Un dramma che vive di forti emozioni, grazie anche e soprattutto alla prova dei 3 membri della famiglia tanto affiatata quanto disfunzionale, tra i quali spicca un Vincent Lindon granitico che infatti trionferà nel Festival con la Coppa Volpi maschile.

5- The Brutalist, di Brady Corbet

Se in questo difficile bilancio Queer viene selezionato come miglior film del Festival, è indubbio come l’opera diretta alla terza regia da Brady Corbet abbia positivamente travolto il Concorso, arrivando ad aggiudicarsi anche il Leone d’argento – Premio speciale per la regia. The Brutalist è l’epopea dell’architetto ebreo ungherese László Tóth che, sopravvissuto all’Olocausto ed una volta conclusa la seconda guerra mondiale, si trasferisce all’ombra della Statua della Libertà per vivere l’american dream.

Un percorso di stenti e sofferenza, che porta l’artista a vivere dapprima la povertà per poi arrivare ad avvicinarsi ai suoi sogni più profondi. Nel mentre Laszlo porta avanti anche una relazione epistolare con la moglie Erzsébet, con i suoi vizi che verranno messi a dura prova. Con The Brutalist nasce un racconto tristemente epico e portato sullo schermo, in pellicola 70mm, per una durata di 215 minuti che vanno ad esporre un manifesto del potere e dell’ossessione.

Il sogno americano si sfalda, dal nulla alla vetta della cima più alta, per poi accorgersi di come da lassù la caduta sia solo più fragorosa, nonostante il panorama. Un’opera accomunata immediatamente dalla critica, per tematiche e manifestazione, al superbo Il Petroliere di Paul Thomas Anderson, con The Brutalist che può contare sull’intensa prova da protagonista del talento recitativo di Adrien Brody.

6- Vermiglio, di Maura Delpero

Se il film The Brutalist arriva silenziosamente al Festival di Venezia per travolgerlo, la seconda regia di Maura Delpero dopo il precedente Maternal segue le stesse orme, ma per un film decisamente più intimo e minimalista, ma non per la classe mostrata su schermo. Riprendendo molto dal film del 2019, la regista offre in Vermiglio uno scorcio della realtà popolare nell’omonimo paesino del nord Italia nel 1944, la quale verrà sconvolta dall’arrivo di un giovane soldato ferito durante la Guerra.

Nonostante sia ambientato 80 anni fa, il film di Maura Delpero abbraccia lo spettatore per il tatto e la concentrazione con i quali va a trattare una condizione della donna sempre attuale, sviscerando la sua sensibilità da 3 diverse prospettive e presentando lo scontro di grandi piccole donne con la comunità patriarcale nella quale sono immerse. Fuoriescono temi legati alla maternità, alla sessualità e alla crescita professionale, con il credo religioso che si aggira in una messa in scena bucolica e naturalistica dalla mirabile resa visiva, con Maura Delpero premiata con il Leone d’argento – Gran premio della giuria.

7- The Order, di Justin Kurzel

Altra bellissima sorpresa del Concorso è poi il nuovo film del regista australiano Justin Kurzel, il quale era chiamato ad una forte conferma identitaria della sua filmografia. Il regista di Snowtown e Macbeth al Festival di Venezia infatti con The Order, avvincente crime ambientato nel nord-ovest degli USA negli anni ’80. Ispirato a fatti realmente accaduti, il film vede l’FBI indagare su una serie di aggressioni e rapine, le quali verranno ricondotte ad un gruppo terroristico guidato da un carismatico leader pronto a tutto per ottenere la vittoria del suprematismo bianco.

Ne nasce una vera e propria caccia all’uomo, con i ruoli di preda e cacciatore pronti ad invertirsi reciprocamente a più riprese. Straordinarie le prove da protagonista di Jude Law e Nicolas Hult, due facce della stessa sporca medaglia.

Diva Futura tra i migliori film del Festival di Venezia 2024

8- Diva Futura, di Giulia Louise Steigerwalt

Si abbandona così la c.d. “fascia alta” del Concorso, addentrandosi in quella di mezzo costellata comunque da titoli ampiamente apprezzati e riusciti. Altra affascinante sorpresa infatti per il Concorso, Diva Futura segna la seconda regia di Giulia Louise Steigerwalt incantando per intelligenza e delicatezza, con le quali affronta il tema trattato.

Adattamento del romanzo Non dite alla mamma che faccio la segretaria di Debora Attanasio, Diva Futura narra della crescita dell’omonima agenzia di film per adulti nell’Italia degli anni ’90. Ilona Staller, Moana Pozzi, Eva Henger e molte altre sono le muse del visionario Riccardo Schicchi, intento a rivoluzionare l’industria dell’intrattenimento per adulti lottando contro i mulini al vento di un ipocrita costume sociale e politico. Con Diva Futura Giulia Louise Steigerwalt affronta il penetrante e scandaloso tema con estrema eleganza e singolarità, riuscendo sia a divertire per via delle trovate comiche e sia ad emozionare per gli spiccati momenti drammatici.

A tal riguardo, decisamente funzionale la prova delle tre protagoniste, dalle quali emerge l’intensità dei loro occhi lucidi sull’ammasso di corpi statuari e bellezze mozzafiato. A trascinare la squadra è poi un Pietro Castellitto particolarmente convincente, reduce dalla sua precedente regia Enea presentato anch’esso in Concorso al Festival di Venezia nella scorsa edizione.

9- Leurs enfants après eux, di Ludovic e Zoran Boukherma

Il quinto film in Concorso è quello diretto dalla giovane coppia di registi francesi Ludovic e Zoran Boukherma. Attraverso la loro terza collaborazione consecutiva, i fratelli realizzano con Leurs enfants après eux un intenso trionfo dell’estate, della giovinezza della ciclicità della vita di un coming-of-age “settoriale”. Narrando di quattro periodi estivi fondamentali nella vita del giovane Anthony, a distanza di 2 anni l’una dall’altra, a tornare in un vortice vizioso e virtuoso sono infatti le delusioni e i momenti di gloria che ruotano attorno ai suoi inossidabili punti fermi: l’amore verso una ragazza bellissima ed irraggiungibile, il rapporto con il padre violento e le forti relazioni con gli amici e quelle ancor più forti con i rivali.

Emozionante la prova cangiante del protagonista Paul Kircher, premiato in tale occasione con il riconoscimento Marcello Mastroianni e già rilevante nell’ottimo The Animal Kingdom di Thomas Cailley. Un film caratterizzato sì da un’ottima costruzione dell’immagine, che passa soprattutto attraverso la splendida direzione della fotografia di Augustin Barbaroux, ma che vive appunto di emozioni. Oltre a quelle rilasciate da un cast ben calato nella parte, a rendere particolarmente energica la visione di Leurs enfants après eux è la sua esplosiva colonna sonora, passando dagli Iron Maiden agli Aerosmith per poi chiudersi catarticamente con un evergreen Bruce Springsteen.

10- La stanza accanto, di Pedro Almodóvar

Si arriva così al trionfatore di quest’edizione, con il il Leone d’Oro assegnato al nuovo film del grande cineasta spagnolo Pedro Almodovar che, tuttavia, non è riuscito ad incantare quanto avrebbe dovuto. Tre anni dopo la presentazione, sempre al Festival di Venezia, del suo precedente film Madres paralelas, l’acclamato autore torna a solcare il red carpet con il nuovo La stanza accanto.

Basato sul romanzo Attraverso la vita di Sigrid Nunez, il titolo originale del film sarebbe The room next door e certificando così il primo girato in lingua inglese per l’autore di Tutto su mia madre e Volver, per un dramma da camera che inquadra il tema del fine vita da due ottiche differenti. La storia è infatti quella di due amiche intime, anzi, intimissime. Ingrid è una scrittrice affermata, la quale viene a sapere per caso che Martha, sua amica reporter di guerra ai tempi del lavoro per una stessa rivista, sta affrontando la terapia per un cancro maligno.

Nonostante le circostanze non siano delle migliori, le due amiche riescono a ritrovarsi dopo anni di allontanamento dalle reciproche vite. La forte Martha, tuttavia, sta per chiedere all’amica un favore sconcertante, al quale Ingrid non può tirarsi indietro: aiutarla a morire con dignità. Per Almodovar si tratta del 24° film, per una messa in scena che denota la classe registica di un professionista. Un tema spiccatamente drammatico, affrontato con un certo gusto teatrale e puntando tutto sulla prova delle due splendide attrici protagoniste, con Tilda Swinton e Julianne Moore che presentano prove ammalianti dai caratteri molto diversi eppure così vicini.

11- Maria, di Pablo Larraín

Ad aprire il Concorso dell’81° Festival del Cinema di Venzia è l’11 film dell’acclamato regista cileno Pablo Larrain, autore dell’ultimo El Conde presentato anch’esso a Venezia nella scorsa edizione della Mostra. Dopo Jackie del 2016 con Natalie Portman e Spencer con Kristen Stewart, Larrain con Maria accantona first lady e principesse per trovare spazio direttamente tra le stelle del firmamento. Protagonista del nuovo biopic è in questo caso Angelina Jolie, per un’interpretazione “Divina” tanto quanto il personaggio chiamato ad interpretare, ovvero la più grande cantante lirica di tutti i tempi: Maria Callas.

Accanto al premio Oscar per Ragazze interrotte ad essere presente nel cast è anche una preziosa compagine italiana, come quella di Alba Rohrwacher e Pierfrancesco Favino. Le promesse per il grandissimo film ci sarebbero tutte, peccato per lo sviluppo di una tragedia greca che non vada troppo oltre il “semplice” biopic e con una cura estetica nella costruzione dell’inquadratura sottotono per quanto abituato da Larrain, nonostante la sua pregevole fattura.

12- Ap’rili, di Dea K’ulumbegashvili

Con Ap’rili ci si trova dinnanzi al titolo forse più controverso di questa edizione, tanto per le tematiche affrontate quanto per lo stile registico adottato nella messa in scena. Dopo l’esordio alla regia nel 2020, la regista georgiana Dea K’ulumbegashvili torna sul grande schermo con una straziante ripresa del cerchio della vita attingendo pien mani (insanguinate) nel tema dell’aborto.

Per quanto riguarda la trama del film, la professionalità e moralità di Nina – empatica ostetrica e ginecologa di provincia – iniziano ad essere messe in discussione in seguito alla morte di un neonato durante il parto. La stessa verrà successivamente anche accusata di praticare illegalmente aborti alle giovani donne che le chiedono aiuto.

Una visione quella di Ap’rili sicuramente impegnativa, non soltanto per i delicati temi morali, sociali e politici trattati, quanto soprattutto proprio per la messa in scena della regista georgiana. La vita e la morte divengono soggetti dell’inquadratura attraverso riprese lente, laceranti, sostenute, con sequenze integrali in sala parto dagli stomaci e cuori forti. Una visione sicuramente “coraggiosa” ma che, inevitabilmente, fa scendere a compromessi per l’esasperazione della sua tenuta.

13- Trois Amies, di Emmanuel Mouret

Cambiando completamente registro ed ambientazione, con Trois amies si assiste al 12° film scritto e diretto dal francese Emmanuel Mouret, premio Cesar nel 2021 per il Miglior film a Les choses qu’on dit, les choses qu’on fait. Un vento di impulsi e passioni percuote il mondo delle protagoniste di Trois amies, dando vita a relazioni turbolente che ruotano attorno a 3 amiche inseparabili, sì, ma messe a dura prova da continue questioni di fiducia.

Una commedia sentimentale dagli inevitabili echi al cinema di Woody Allen su tutti, ma comunque frutto di un sentimentalismo tutto francese. Per una visione leggera e divertente portata avanti dall’ottima prova emozionante del cast, capace di dare vita a personaggi sfaccettati con i quali rimane facile empatizzare.

14- Qīngchūn: Guī, di Wang Bing

La presenza “atipica” all’interno del Concorso di Venezia 81 è Qingchun: Gui, con il titolo internazionale Youth: Homecoming, ma giusto per il fatto di non rappresentare un film di finzione ma un documentario. Quello dell’acclamato regista cinese Wang Bing, definito appunto come il miglior documentarista cinese, arriva così sul grande schermo del Festival di Venezia tornando a dare voce a quelle piccole grandi storie che riempiono i microcosmi della storia cinese, raccontando la realtà attraverso il mezzo cinematografico.

Qingchun: Gui, in particolare, si addentra nell’intimità di una giovane generazione allo sbaraglio, che per concedersi i piaceri della vita è costretta a subire lo sfruttamento disumano della morsa lavorativa. Un documentario fortemente necessario per dare voce ai non-protagonisti in scena, sebbene la visione in sé resti inevitabilmente distante al grande cinema sullo schermo, per un film che avrebbe sicuramente potuto spingere di più anche per la sua parte documentaristica di denuncia.

15- Ainda estou aqui, di Walter Salles

Nel suo 5° giorno di Festival, il Concorso della Mostra di Venezia riparte con il nuovo film di Walter Selles. Noto per la regia di Central do Brasil e I diari della motocicletta, l’autore brasiliano del remake hollywoodiano Dark Water torna sul grande schermo a 12 anni di distanza dal precedente film.

Quella di Ainda estou aqui è una storia che attinge dai drammatici eventi legati alla figura dei desaparecidos: padri, madri, ragazzi e liberi cittadini strappati con la forza alle loro famiglie da parte della dittatura brasiliana, finendo per sparire nel nulla. Una drammatica storia che tocca da vicino lo stesso Sellers, che ha passato ben 7 anni alla realizzazione del film assistendo, nel frattempo, alla trasformazione del suo Paese in qualcosa pericolosamente vicino al Brasile degli anni ’70.

A parte l’intensa prova della protagonista Fernanda Torres, Ainda esou aqui resta tuttavia fatalmente sulla soglia del “minimo indispensabile”, non riuscendo ad andare oltre la costruzione storica e di un’inquadratura priva di folgoranti emozioni. Un premio alla personale prova dell’attrice protagonista avrebbe sicuramente avuto maggior giustizia, rispetto alla conquista del Premio Osella per la migliore sceneggiatura.

16- Kjærlighet, di Dag Johan Haugerud

Avvicinandosi all’ultima fascia del concorso, il film di Dag Johan Haugerud fa parte della sua trilogia spirituale con Sex e Drømmer dello stesso anno, arrivando qui a tratteggiare un’utopistica liberazione della libertà sessuale dai dogmi e limiti morali imposti dalla società. Kjærlighet non rappresenta una visione buttata e né un brutto film, forte soprattutto di una scrittura intelligente e verbosa che conferisce buona sensibilità e delicatezza al racconto. L’amore ritrovato in Kjærlighet – quello “puro”, fine a sè stesso e alla ricerca del piacere quale sensazione gratificante dell’autodeterminazione – è privo di necessarie emozioni, senza uno sviluppo narrativo che possa presentare personaggi interessanti. Ne esce una visione piatta ed anche stancante alla lunga.

Joker 2 tra i peggiori film del Festival di Venezia 2024

17- Joker: Folie à Deux, di Todd Phillips

Entrando nella fascia dei peggiori titoli della classifica, questa non poteva che essere inaugurata dal film forse più deludente e chiacchierato di questa edizione del Festival di Venezia. Dopo il Leone d’Oro conquistato nel 2019, proprio con l’origin story sul controverso ed amato personaggio DC, a tornare in Concorso è lo stesso Todd Phillips con il sequel Joker: Folie à Deux.

Seguendo la nuova storia sul pagliaccio del crimine, questo affronterà questa volta la sua spirale di follia in compagnia. Internato ad Arkham in seguito agli eventi del primo film, Arthur incontrerà infatti Lee, la quale riuscirà ad accendere la “musica” che teneva nascosto per affrontare il processo in tribunale, con Arthur che rischia la pena di morte. Nonostante le premesse fossero decisamente accattivanti, Joker: folie a deux non solo non presenta nuova sostanza al drammatico film del 2019, ma rischia anche di vanificare quanto ottimamente costruito.

Un racconto appunto folle (ma non in termini “positivi), incongruente, ricco di falle e che dimostra tutti i problemi affrontati dal regista in pre-produzione, mettendo continuamente mano alla sceneggiatura. La sensazione di Joker: folie a deux sembrerebbe così quella di una semplice occasione per Lady Gaga di cantare nel film, per un non-musical che non indovina nemmeno il coinvolgimento degli spezzoni musicali.

La colonna sonora orchestrale composta resta comunque pregevole, dalle stesse note del premio Oscar Hildur Guðnadóttir, per un film che non rappresenta un totale disastro. A tirare avanti la carretta ci pensa una buona regia dello stesso Phillips nella conduzione della macchina da presa, con una prova sempre incisiva del protagonista Joaquin Phoenix che torna con successo a rivestire i panni del personaggio che gli ha fatto ottenere il premio Oscar.

18- Babygirl, di Halina Reijn

Altro film profondamente chiacchierato durante i giorni del Festival è anche quello dell’autrice olandese Halina Reijn, che come terza regia propone il suo Babygirl. Si tratterebbe di un thriller erotico con protagonista la star premio Oscar Nicole Kidman (vincitrice in questo caso, a sorpresa, della Coppa Volpi), la quale interpreta una donna in carriera tormentata dalla sua dipendenza dal sesso.

In azienda arriverà infatti il giovane tirocinante Samuel, verso il quale la donna sarà immediatamente attratta rischiando la sua vita coniugale con il marito Jacob e le due figlie. Quello che porrebbe le basi per un’analisi antropologica e sociale della sessualità, delle sue perversioni e della libertà individuale di godere di propri impulsi, si tramuta purtroppo in un’operazione sconsiderata. Molte e reiterate le sequenze d’imbarazzo presenti in Babygirl, con una scrittura a dir poco approssimativa dei personaggi che regalano la gioia vouyeristica mascherata da cinema d’autore.

19- Campo di battaglia, di Gianni Amelio

Sul podio più basso del Concorso, purtroppo, si trovano ben due film italiani. Dopo il precedente Il signore delle formiche con Luigi Lo Cascio, presentato anch’esso al Festival di Venezia, il regista Gianni Amelio adatta su schermo il romanzo La sfida di Carlo Patriarca. La principale particolarità di Campo di Battaglia sarebbe quella di narrare gli orrori della prima guerra mondiale direttamente dal letto di un ospedale, senza muoversi da quelle tragiche 4 mura nella quale lavorano due amici d’infanzia.

Il primo, Stefano (Gabriele Montesi), attaccato alla Patria e desideroso di curare i feriti per farli tornare subito al fronte; il secondo, Giulio (Alessandro Borghi), maggiormente attaccato alla vita dei suoi pazienti, tanto da agire di nascosto per peggiorare (sotto controllo) le loro condizioni per non farli tornare a combattere e rischiando così la vita. Le ottime premesse di Campo di Battaglia si fermano fatalmente qui, restituendo su schermo una visione stanza e senza idee, con una buona messa in scena purtroppo inaffettiva.

Oltre alla prova di un cast decisamente ingessato, a rendere perplessi è lo sviluppo del racconto, che mette completamente da parte la Prima Guerra mondiale già praticamente a metà visione per inoltrarsi in sentieri etici e morali alquanto “discutibili”.

20- Harvest, di Athīna Rachīl Tsaggarī

Nuovo film scritto e diretto dalla regista greca Athīna Rachīl Tsaggarī, Harvest “spezza” il podio italiano dei peggiori film del Concorso con questo racconto tratto dal romanzo Il raccolto di Jim Crace. Come il verde e la naturalistica scenografia adottata in questo medioevo scozzese, la visione degli interminabili 130′ viene buttata clamorosamente alle ortiche.

Lo sviluppo narrativo non riesce mai a fare presa sullo spettatore, non coinvolto in alcuna dinamica minimamente avvincente, dalle quali non si esalta la prova sicuramente sottotono del cast. Protagonista del film è infatti uno dei volti più interessanti del panorama cinematografico moderno, con lo stesso Caleb Landry Jones vincitore proprio lo scorso anno della Coppa Volpi che regala interpretazione ed un personaggio anonimo, insignificante e da dimenticare. Oltre ad una visione stanca e stancante, ad impreziosire in negativo Harvest sono poi delle “trovate” nell’ultimo atto che possono lasciare senza parole.

21- Iddu – L’ultimo padrino, di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza

Probabilmente, come opera cinematografica in sé, Iddu – L’ultimo padrino di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza non costituirebbe il peggiore film dell’81° Festival del cinema di Venezia, per una visione comunque mediocre e più incline ai canali televisivi. Ciò non toglie come il titolo resti quello che, più di tutti, debba essere ridimensionato per il modo in cui tratta la sua storia.

Non un vero e proprio film biografico sull’aimé celebre boss mafioso Matteo Messina Denaro, quanto un racconto epistolare che trae spunto da fatti realmente accaduti durante la latitanza del Signore della malavita. Eppure gli elementi storici e biografici sono ben presenti dall’inizio alla fine, anche con espliciti riferimenti extracinema, senza che ci sia il minimo riferimento alla cattura del boss, avvenuta mesi prima dall’inizio delle riprese.

La coppia di registi non riuscirebbe quindi a gestire il ruolo della finzione all’interno del racconto, ma non rappresenta minimamente il peccato maggiore del film. Sia o meno avvenuto in modo consapevole, Iddu – L’ultimo padrino ne esce come un’inaccettabile glorificazione della figura del suo personaggio protagonista, costruito come figura cristologica (con tanto di aureola finale) e visto come martire in fuga da una polizia corrotta.

Un film che tenderebbe così a mostrare un accanimento verso il “martirio” di tali personaggi, sputando anche in un certo modo sul ruolo essenziale dei collaboratori di giustizia. Iddu – L’ultimo padrino resta in sé una visione evitabile, non riuscendo nemmeno a dare degna rappresentazione alle prove recitative di due giganti del nostro cinema come Elio Germano e Toni Servillo, ma tutto il resto lo renderebbe un titolo almeno deplorevole.

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Vittorio Pigini
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Laureato in Giurisprudenza, diplomato in Amministrazione Finanza e Marketing, ma decisamente un Hobbit mancato. Orgogliosamente nerd e da sempre appassionato al mondo cinematografico, con il catartico piacere per la scrittura. Studioso della Settima Arte da autodidatta, con dedizione e soprattutto passione che mi hanno portato a scrivere di cinema e ad avvicinarmi alla regia.