Recensione serie tv Dostoevskij atto 2

Dostoevskij – Atto 2: mercificazione del cinema d’autore

Oltre al rispettivo Atto 1, Vision Distribution dall’11 al 17 luglio ha avuto modo anche di portare sul grande schermo Dostoevskij – Atto 2, la seconda parte dell’opera ideata e diretta dai Fratelli D’Innocenzo. Progetto nato come miniserie per il piccolo schermo, i cinema italiani hanno avuto occasione di proiettare in sala l’opera presentata in anteprima alla Berlinale in due parti, con l’indagine al serial killer perpetuata dal personaggio interpretato da Filippo Timi.

Dostoevskij – Atto 2, la trama della seconda parte dell’opera degli D’Innocenzo

In questa singolare operazione d’analisi che si richiede per Dostoevskij – Atto 2, è innanzitutto opportuno individuare il contesto narrativo di questa seconda parte dell’opera dei fratelli D’Innocenzo. Ormai fuori dalla polizia, Enzo è sempre più determinato nel trovare una volta per tutte il serial killer, spingendosi anche ad un’indagine in solitaria. Per poterci riuscire, l’ex poliziotto porta avanti la strategia di rintracciare gli ex studenti dell’orfanotrofio per provare a ricostruirne l’oscuro passato.

Recensione Dostoevskij Atto 2

Dostoevskij – Atto 2, la recensione: mercificazione del cinema d’autore

Tra quanto morirai? È una domanda seria, quanto pensi ancora di resistere?

Oltre ad essere seria, la domanda è particolarmente calzante per lo spettatore, quasi a chiedergli appunto quanto potrà ancora resistere per terminare l’onerosa visione di Dostoevskij. Come anticipato già nella recensione al precedente Atto 1, l’intenzione qui è di focalizzarsi unicamente sullo sviluppo narrativo dell’opera, concentrandosi in particolare sui personaggi e mettendo da parte un discorso più propriamente tecnico.

Questo anche perché, la seconda parte della visione, tenderebbe a mantenere pregi e difetti di quanto potuto ammirare nelle precedenti 2 ore e 30, forti di un’intrigante costruzione dell’immagine – dove anche una suite deluxe cade a pezzi dal marciume – ed un comparto sonoro di buonissimo livello. A ciò si lega tuttavia una certa confusione nello stile di ripresa, con un’instabilità particolarmente schizofrenica nel cambiare inquadratura e punto di vista senza un vero senso di continuità, oltre ad un catastrofico montaggio.

Ogni minuto di visione viene praticamente triplicato, un macigno, tramortendo la speditezza di un crime dove diviene sempre fatale affossare l’attenzione e gli stimoli circa la ricerca del serial killer, che va perdendo via via sempre più fascino. Tale operazione, quella di allungare e soffermarsi maggiormente sui volti e sulle circostanze dei personaggi, avrebbe via libera qualora si porti avanti un’indagine introspettiva del protagonista particolarmente solenne e profonda, ma è forse la sceneggiatura di Dostoevskij quella con più aspetti critici.

Si ribadisce innanzitutto come il personaggio di Enzo resti la cosa migliore e più affascinante dell’opera, tanto nella performance recitativa di Filippo Timi quanto nella costruzione dei suoi caratteri. Intrigante infatti il suo rapporto con il killer e d’effetto la soluzione narrativa sviscerata nel rapporto con la figlia Ambra (forse eccessivamente carica nella resa dei conti), ma Enzo non riesce a portare avanti la carretta oltre il possibile di una visione spesso imbarazzante ed inconsistente. Il dialogo su di un “polpo” diventa così un po’ l’emblema di un registro dialettico fuori dalla normale comprensione: si farebbe in questo caso riferimento ad eventi comunque traumatici per una delle parti, con un possibile sviluppo importante per l’intreccio narrativo. Il tutto viene terminato da un’inutile piega ironica da parte del cuoco sull’invitare a mangiare la carne, con il discorso addirittura troncato in sede di montaggio lasciando più di qualche perplessità.

E così un “lapsus” diventa una parola inglese con la quale fare il “fenomeno” ed una surreale scena notturna al bar non mette tanto la ciliegina sulla torta quanto un tramezzino di traverso in gola. Nella verbosità di Dostoevskij ci sarebbe così il fallitissimo tentativo di restituire una certa ironia grottesca ad un racconto sul serial killer comunque carico di morte e dramma, ma cercare di copiare i Coen (giusto un esempio forse più lampante) risulta sempre una mossa azzardata. Si ride involontariamente quindi a denti particolarmente serrati per esorcizzare l’imbarazzo in più di qualche sequenza, ma i problemi sono anche altri.

Così come intuibile già dalla prima metà dell’opera, il killer Dostoevskij rimane un semplice MacGuffin sfruttato da Enzo per trovare il senso della sua vita e quindi della sua morte. Per un’opera nata e costruita come un algido crime, far sparire quasi completamente l’assassino nella seconda metà non emerge come la migliore delle idee, soprattutto se a sparire sono anche i rapporti “poliziotteschi” con gli ex colleghi e quelli problematici con la figlia Ambra che, al di là di una necessaria resa dei conti già citata, non offre una vera e propria chiusura del cerchio.

Continuando infatti a perdere tempo nel soffermarsi su una o più inquadrature, Dostoevskij mostra sì il suo protagonista ma si dimentica di tutti gli altri personaggi, i quali a conti fatti risultano decisamente inutili nell’economia del racconto. Al killer tanto decantato nelle gesta viene concesso giusto uno straccio di caratterizzazione, senza andare in profondità alla psiche dell’assassino (cosa che aveva invece lasciato particolare curiosità nella prima metà sullo speciale legame tra i due personaggi), mentre Ambra viene abbandonata a sé stessa senza un momento di catarsi e di evoluzione, senza nemmeno considerare i due ex colleghi di Enzo, capaci solo di rimanere fuori da tutto.

Al termine dell’interminabile visione di Dostoevskij rimane così il rammarico di non aver potuto vedere un’opera “pura”. Le basi intriganti erano infatti presenti, la tecnica per realizzare scene dal grande impatto non mancava e il poter contare su un importante protagonista fa sempre la differenza. Purtroppo però c’è tutto il resto, che non è poco ed avvelena l’intera esperienza di Dostoevskij: ritmo pesantissimo, narrazione senza punti fermi sia nella sviluppo che nello stile del suo registro, oltre ad un grottesco ed un’ironia non solo involontariamente ma anche fastidiosamente fuori luogo.

I conti non tornano, tutto lasciato al caso, con una sequenza conclusiva alquanto inconsistente e lasciata al docile corso di un fiume tutto fuorché risanante. Quello dei fratelli D’Innocenzo si tramuta così nel delirio di onnipotenza nel voler restituire su schermo troppe cose, le quali assumono connotati inevitabilmente superficiali. In Dostoevskij c’è il poliziesco, il giallo investigativo, il dramma famigliare, il thriller psicologico, serrato e sporco ma anche con note grottesche ed (involontariamente) ironiche. Il tutto però non riesce a respirare a dovere, con la visione di 5 ore che avrebbe sicuramente meritato un miglior inquadramento filmico invece di voler raggiungere gli schemi del piccolo schermo, annacquando continuamente il racconto con inutili e gravose sospensioni.

Dostoevskij risponde ad una natura prettamente cinematografica, con la fastidiosa sensazione di voler allungare il brodo oltre il necessario giusto per raggiungere la consegna della miniserie, rispondendo così eventualmente a logiche commerciali, artistiche e di eco mediatico, quando sarebbe bastato un lungometraggio dalla durata dimezzata.

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Vittorio Pigini
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Laureato in Giurisprudenza, diplomato in Amministrazione Finanza e Marketing, ma decisamente un Hobbit mancato. Orgogliosamente nerd e da sempre appassionato al mondo cinematografico, con il catartico piacere per la scrittura. Studioso della Settima Arte da autodidatta, con dedizione e soprattutto passione che mi hanno portato a scrivere di cinema e ad avvicinarmi alla regia.