La recensione del film The Brutalist

The Brutalist è la monumentale epopea di un ruvido kolossal

Successivamente ad essere stato presentato in anteprima all’81a edizione del Festival di Venezia, nella quale occasione ha ottenuto il Leone d’argento – Premio speciale per la regia, The Brutalist arriva nelle sale italiane dal 6 febbraio 2025. Si tratta del terzo film scritto e diretto dal regista statunitense Brady Corbet, successivamente al suo Vox Lux del 2018 con Natalie Portman.

The Brutalist vede invece protagonista Adrien Brody e narra l’epopea dell’architetto ebreo ungherese Laszlo Toth, scampato all’Olocausto ed intento a ricominciare una nuova vita negli Stati Uniti del Secondo Dopoguerra. Ecco di seguito la recensione di The Brutalist, il film di Brady Corbet candidato a 10 premi Oscar, tra cui Miglior Film.

The Brutalist, la trama del film di Brady Corbet

Su sceneggiatura dello stesso regista Brady Corbet, assieme alla compagna e collega norvegese Mona Fastvold (Vox Lux, Il mondo che verrà), The Brutalist è un epico film drammatico ed in costume ambientato negli Stati Uniti del Secondo Dopoguerra. Stimato architetto ebreo della Bauhaus scampato all’Olocausto, Laszlo Toth è infatti sbarcato all’ombra della Statua della Libertà cercando di rifarsi una vita.

L’inizio della sua nuova avventura non è sicuramente dei migliori: l’ambiente è ostile, i piccoli lavoretti non sembrano portate a nulla di concreto e la distanza dalla moglie Erzsébet (rimasta in un campo profughi in Europa) si fa sempre più ingombrante. Di colpo, tuttavia, irrompe nella sua vita il magnate Harrison Lee Van Buren che, rimasto colpito dalle capacità di Laszlo, gli commissiona una nuova imponente opera in onore della madre.

La trama del film The Brutalist

The Brutalist, recensione: il grande cinema che edifica il futuro sulle basi del passato

C’è stata una guerra, eppure molti degli edifici che ho progettato sono sopravvissuti. I miei edifici li ho concepiti per resistere anche all’erosione delle rive del Danubio.

Fin dalla sua prima proiezione all’81° Festival di Venezia, il The Brutalist di Brady Corbet è immediatamente diventata un’opera di culto, celebrata ed osannata da gran parte della critica presente già al Festival, ma che avrebbe successivamente traghettato il film verso la Notte degli Oscar. Difficile prevedere un successo ed un’acclamazione tale precedente l’inizio del suo viaggio, con il film che di fatto prenderebbe artisticamente e metaforicamente il posto di uno dei film più attesi del 2024, nonché uno dei suoi più divisivi.

Si tratta infatti del Megalopolis di Francis Ford Coppola, per diversi aspetti molto simile all’epica epopea del protagonista, ma distante per ideologia, cronologia e campo da gioco. Ciò che accomuna i protagonisti dei due film è ovviamente il loro lavoro, quello dell’architetto, che porta con sé capacità e mentalità molto specifiche e particolari, soprattutto se rapportate al contesto cinematografico. Più che le altre manifestazioni dell’Arte, la scultura tenderebbe a riversare la visione artistica dell’autore nella costruzione fisica e materiale, la quale diviene semplicemente un mezzo, un involucro da riempire per esprimere i sentimenti e la visione dell’artista. Con l’architettura, invece, le circostanze si modificano ed il focus principale diviene proprio quel mezzo, quella costruzione.

Ovviamente nell’equazione non può che rientrare anche il gusto estetico, la visione artistica del costruttore, ma ogni costruzione architettonica da questo punto di vista mantiene il principale obiettivo di ergersi e perdurare, di non crollare. Un ponte può essere esteticamente il più affascinante mai realizzato, ma se cede all’erosione del tempo e del clima ha semplicemente fallito nella sua principale missione. Quella della costruzione di un edificio, stabile e che rimane immutabile, si tramuta così in una vera prova di forza contro il tempo.

Nel corso dei millenni ci sono infatti state costruzioni volte a collegare l’Uomo a Dio, a manifestare l’intervento divino in Terra, senza dimenticare sepolcri e realizzazioni cimiteriali che custodiscono e proteggono l’uomo anche nell’aldilà. Si arriva così direttamente anche al The Brutalist di Brady Corbet, dedicato ai nostri antenati e che vede le sue costruzioni (in particolare la monumentale commissione al protagonista) particolarmente legate al tempo, all’inevitabile e all’erosione, alla morte.

Non a caso, se deve essere presa in esame una corrente artistica, in questo caso non poteva non essere scelta proprio quella del brutalismo degli anni ’50, valorizzando edifici tanto essenziali quanto inscalfibili, evidenziando i suoi materiali grezzi ed efficaci, le sue linee squadrate e solide. Nonostante la sua elevata stabilità, un edificio può sempre crollare, in un modo o nell’altro; al contrario, l’espressione artistica del grande cinema resterebbe immutabile al tempo e allo spazio. Quando però architettura e cinematografia si fondono, ecco che fuoriescono imponenti visioni come quella dell’ultimo film scritto e diretto dal regista di Vox Lux.

Brady Corbet riesce infatti a fondere la corrente brutalista con il mezzo cinematografico, tanto negli aspetti narrativi, quanto estetici, poetici e tecnici. Il suo (s)quadrato The Brutalist racconta quindi l‘epica epopea del suo protagonista scampato dall’Inferno della Seconda Guerra Mondiale, intento a costruirsi, ad edificarsi, una nuova vita. Nel mostrare l’ascesa e decaduta del personaggio di Laszlo Toth, il regista enfatizza quei materiali grezzi, quella ruvidità tanto estetica quanto narrativa nel vedere il protagonista salvato dal fango e successivamente ricatapultato in quella sporca poltiglia.

Ma come mostrato già nella prima parte del film, con quell’emblematica visione rovesciata della Statua della Libertà, The Brutalist è frutto di continue contraddizioni, alcune onorevoli, altre che fanno perdere il reale intento di questa solida costruzione cinematografica.

The Brutalist, la recensione del film

The Brutalist, recensione: le velenose contraddizioni di un’epica epopea

Non importa cosa gli altri provino a venderti, ciò che conta è la destinazione, non il viaggio.

Il sipario di The Brutalist si chiude proprio con questa sentenza, apparentemente solenne ma che mostrerebbe non pochi punti emblematici creando, di fatto, creando un notevole cortocircuito con lo stesso film, ma andiamo con ordine. Innanzitutto, occorre sottolineare qui la portata epica del racconto di Corbet, andando a portare sul grande schermo un’epopea di 215 minuti e 30 anni narrativi che si dirama tra la polvere ed il cemento del famigerato american dream.

La Storia, il Tempo, l’Amore e l’Uomo diventano quindi ingredienti principali di questo imponente film, che trova libero sfogo anche nel suo monumentale assetto tecnico (che si analizzerà più avanti). Proprio il Cosa ed il Come di The Brutalist portano l’opera ad avvicinarsi, concettualmente e con le solite “pinze” per tali accostamenti, ad altri titoli come il Quarto Potere di Orson Welles (in generale anche il resto della filmografia del grande cineasta), a Il Petroliere di Paul Thomas Anderson o al C’era una volta in America di Sergio Leone.

In questa sede, si continuerà a puntare maggiormente sul parallelismo tra la regia e scrittura di Brady Corbet con uno dei migliori film della storia del cinema, appunto Citizen Kane, principalmente per il modo in cui viene rapportata su schermo l’epica epopea dei propri protagonisti. Come già accennato, in The Brutalist le contraddizioni (non intese in senso inevitabilmente dispregiativo) rappresentano il motore a scoppio del film. Emblematica in tal senso l’immagine della Statua della Libertà, con il suo imprescindibile simbolismo, che si rovescia all’arrivo di Laszlo negli States.

L’ex stimato architetto impatta con l’ambiente ostile, tocca un fondo che credeva di aver abbandonato in Europa, conosce la dipendenza e le realtà povere e malate, prima che si presenti alla sua porta quel celeberrimo sogno americano, la svolta che cambierà radicalmente la sua vita. Una volta toccato il fondo, l’artista può ora invece assaporare il successo e realizzare i suoi più grandi obiettivi professionali, dall’essere un sopravvissuto fuggitivo dell’Olocausto al capo del progetto, al controllo e al potere da esercitare sui suoi sottoposti.

L’intera prima parte di The Brutalist è in tal senso a dir poco eccezionale, la costruzione dell’ascesa del suo protagonista è appunto rude, spoglia e grezza, nonostante la sua messa in scena sia di assoluto rigore ed eleganza stilistica. A tal riguardo, il parallelismo con il polveroso e sporco Il Petroliere potrebbe essere assolutamente calzante. Quando tutto sembrerebbe essersi aggiustato verso la giusta direzione, ecco quella voce di cui ci si stava ormai dimenticando, quella dell’Amore e di tutto ciò che ne comporta.

L’affascinante intermezzo voluto dallo stesso regista, sulla quale si potrebbe già aprire ampia riflessione extra-cinematografica, spezza The Brutalist in tutti i sensi, l’ulteriore svolta del film, l’ulteriore contraddizione. Dopo anni di distanza Laszlo, infatti, può ora riabbracciare la sua amata Erzsébet. Quella che sembrerebbe essere una nota di ulteriore piacere nella vita del protagonista, si rivela elemento di rottura di quella comfort zone statunitense edificata e solidificata nel tempo.

Non solo, l’arrivo della dolce metà porta con sé, direttamente o indirettamente, anche il legame con il passato che lo stesso Laszlo stava cercando di eliminare dalla sua mente e dal suo cuore, quell’ostacolo originale che incatena ed impedisce di guardare al futuro ma solo al passato. In tale sviluppo narrativo si evince la forte critica all’ideologica ed al sistema socio-culturale, al capitalismo a stelle e strisce, con il protagonista ormai fuso, immedesimato ed abituato a quella nuova natura acquisita, guardando ostinatamente al suo progetto, alla sua creazione ed arrivando a rinnegare il suo passato, le sue radici.

Il sogno americano diviene così fumo sugli occhi, accecando la Storia di una Nazione costruita ed edificata sul sangue, come mostrato anche nella filmografia di Martin Scorsese tra tanti. L’amore diviene così un ingombrante bagaglio, l’ebreo oppresso assapora sempre di più il potere ed il tentativo di iniziare una nuova vita si tramuta in una spirale autodistruttiva. Le contraddizioni di The Brutalist, soprattutto dopo la sua overture nel mezzo, non coinvolgono solo l’aspetto narrativo, ma anche il registro adottato dallo stesso Corbet.

Se l’ascesa di Laszlo nella prima parte è pacata, rigorosa e geometrica, la sua rovinosa discesa diviene meno schematica, folle e con il racconto che ne accentua la velenosità e la caricatura anche dei suoi protagonisti. Cambiando (se non stravolgendo) il suo ritmo e le poste in gioco, la solida impalcatura di The Brutalist inizia a mostrare un po’ il fianco. Il film comincia a perdere pezzi per strada, la costruzione del progetto si rende più complessa del necessario, i personaggi danno cenni di perdita di senno e le interazioni tra loro si fanno particolarmente ambigue ed imperscrutabili.

L’onirica avventura a Carrara rappresenta in tal caso il definitivo passaggio alla follia, con la parte finale del secondo Atto di The Brutalist che viene ostentata, urlata e rincorsa, in contraddizione alla rigorosa ricercatezza costruita nella prima parte (a dir poco grottesca la scena dello stupro di Harrison, così come la rabbiosa scenata di Erzsébet e non pochi altri momenti di inaspettata caduta di stile).

Proprio nel suo finale, il film tende così a deteriorarsi pezzo pezzo (mantenendo comunque una robusta ossatura), facendo perdere alla visione un determinato rigore ed eleganza stilistica e narrativa, soprattutto nel suo epilogo in cui vengono al pettine tutte le contraddizioni (qui sì “velenose”) del film. Se i punti più critici dell’ultima parte di The Brutalist sono riconducibili principalmente a ragioni stilistiche e di perdita di una certa eleganza rigorosa, comunque secondo il registro narrativo, l’epilogo non solo continua a mostrare elementi non convincenti, ma anche il discorso tematico e concettuale si fa particolarmente ambiguo.

Oltre ad un’ellisse temporale infelice, un riquadro metacinematografico di dubbia natura ed un’impalcatura scenica simil-documentaristica non solo anticlimatica, ma anche quasi completamente scollegata dalla precedente visione, The Brutalist torna a contraddirsi. A tal riguardo torna la citazione riportata all’inizio del paragrafo, ma anche i riferimenti tanto a Quarto Potere quanto a Il Petroliere.

Nell’epilogo ci troviamo infatti nel 1980, alla prima Mostra internazionale di architettura di Venezia (anche in questo film Israele resta la Terra Promessa, ma appunto mai mostrata dal regista). In tale circostanza viene dedicata una retrospettiva alle opere di Laszlo, con Zsófia che tiene un discorso in suo onore e mostrando dove l’autore è riuscito ad arrivare, cosa è riuscito a costruire partendo dai campi di concentramento nazisti. Non è importante il viaggio, ma la destinazione.

Riguardo al vero significato di tale affermazione si potrebbero ricavare diverse interpretazioni, una delle quali andrebbe fortemente a contrastare l’intera visione di The Brutalist. L’epopea di Daniel Plainview in Il Petroliere mostra l’ascesa dell’uomo verso il potere fino alla fine, con la sua anima corrotta dall’avidità. L’incredibile finale emblematico del film mostra tutto il prevaricatore potere dell’uomo, che continua a sporcarsi le mani di sangue. Il Charles Foster Kane, allo stesso modo, vede la sua ascesa al potere e alla sconfinata ricchezza facendo uso della forza, fisica e politica, nonostante il film introduca quel quid in più di malinconia e formidabile poesia sul ruolo della nostalgia verso l’innocente infanzia.

I due colossali racconti, in modi diversi, restano comunque lineari e perfettamente coerenti con loro stessi, mostrando le ombre dei propri personaggi protagonisti in virtù della critica sociale e politica. Il Laszlo di The Brutalist, al contrario, resta una scheggia impazzita. Da vera e propria vittima dei campi di concentramento e dello status d’immigrato, il suo personaggio evolve ed arriva ad essere corroso proprio da quel potere e quella megalomania.

Poi, come accennato, il film compie l’ulteriore cambio di passo nel mostrare effettivamente come lo stesso sistema abbia rigettato il protagonista nella fossa dalla quale era partito. In particolare da Carrara in poi, Laszlo torna ad essere effettivamente una vittima ed uno sfruttato del marcio sistema capitalistico…poi l’epilogo. Compiendo un ulteriore salto, non solo temporale, in questa occasione viene esplicitato come l’architetto abbia apportato un contributo artistico di grande valore, arrivando a giustificare e allo stesso tempo azzerare quel sofferto viaggio sostenuto sulle proprie fragili spalle.

Il marcio e sanguinoso capitalismo, che ha sfruttato avidamente il talento di Laszlo, è un prezzo da pagare, un compromesso da accettare per arrivare alla realizzazione di questo tipo di imprese? Se ad essere importante è la destinazione e non il viaggio, come si spiega un’epopea di 30 anni per il protagonista? Si torna a dimenticare (se non rinnegare) il passato, non essendo importante per stabilire cosa uno sia realmente, per guardare ostinamente al futuro in piena ottica di quel criticato american dream?

Insomma, l’intero atto finale di The Brutalist, soprattutto il suo epilogo, non può che essere estremamente controverso o comunque soggetto a diverse interpretazioni. A differenza però di quanto affermato, il viaggio di The Brutalist resta la vera esperienza fondamentale da vivere.

The Brutalist, recensione: la monumentale esperienza di un ruvido kolossal

Vi ho portati qui stasera perché vi uniate nel guardare dinanzi a voi, verso il futuro.

Non mancano infatti le cadute di stile, un intero arco conclusivo che lascia più domande che risposte (non necessariamente in senso onorevole) e i 215 minuti iniziano a farsi sentire, ma l’edificazione di The Brutalist è davvero monumentale. Non si può in tal senso non iniziare dalla fotografia di Lol Crawley (terza collaborazione con Corbet) e dalla messa in scena di quest’opera, tanto cinematografica quanto architettonica.

Come accennato in precedenza, infatti, il regista imprime la filosofia e l’estetica brutalista all’interno del film, per un’epica offuscata e polverosa che mostra terra e cemento. Il tutto viene portato in scena attraverso una geometria schematica alquanto notevole, anche grazie al formato utilizzato. The Brutalist è stato infatti girato in VastaVision, non solo per restituire con schermo panoramico una visione più ampia (soprattutto delle varie costruzioni che diventano cruciali all’interno del film), ma anche per un determinato rispetto storico e metacinematografico.

Con il film ambientato inizialmente negli anni ’50, l’idea di Corbet era infatti quella di ricreare una visione “filologica”, utilizzando appunto quel tipo di formato (introdotto in quel periodo storico) ed impreziosendo la visione di accorgimenti estetici. Si fa riferimento ad esempio all’effetto di bruciature di pellicola, quanto allo stesso intervallo di 15 minuti in onore dei grandi kolossal dei tempi che furono, per non parlare del comparto sonoro.

La soundtrack composta da Daniel Blumberg (“reclutato” dopo il lavoro svolto in Il mondo che verrà), infatti, fa utilizzo solo degli strumenti dell’epoca e cerca di restituire anche nel comparto sonoro l’estetica brutalista. Tra overture, jazz, esecuzioni sperimentali ed il ruggire degli ottoni, la sinfonia di The Brutalist esalta il lato epico del racconto, tanto nell’ascesa quanto nella rovinosa caduta.

L’esperienza del film è quindi sensorialmente totalizzante, con la sceneggiatura che regala gioie e dolori anche per quanto concerne l’aspetto dei suoi protagonisti nello spazio. Al di là infatti delle virtù e limiti in sede di scrittura, il cast di The Brutalist offre un’interpretazione da Oscar. Il “grande Gatsby” di Guy Pearce riesce infatti ad essere un mefistofelico affabulatore ed ammaliatore, senza nascondere troppo la propria sporcizia e fragilità. La Erzsébet Tóth di Felicity Jones non solo si immette con prepotenza nel racconto dal punto di vista narrativo, ma anche da quello recitativo, sebbene gli occhi siano tutti sul protagonista di questa epopea autodistruttiva.

Adrien Brody non ha sicuramente bisogno di troppe presentazioni, con il premio Oscar nel 2003 per lo struggente Il Pianista che potrebbe alzare la sua seconda statuetta con questa sofferta ed intensa prova.

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The Brutalist film recensione.jpf
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Vittorio Pigini
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Laureato in Giurisprudenza, diplomato in Amministrazione Finanza e Marketing, ma decisamente un Hobbit mancato. Orgogliosamente nerd e da sempre appassionato al mondo cinematografico, con il catartico piacere per la scrittura. Studioso della Settima Arte da autodidatta, con dedizione e soprattutto passione che mi hanno portato a scrivere di cinema e ad avvicinarmi alla regia.