Recensione del film horror Wolf Man

Wolf Man non sfodera gli artigli, fallendo nuovamente il mannaro al cinema

Distribuito nelle sale italiane dal 16 gennaio, Wolf Man è il nuovo film horror scritto e diretto da Leigh Whannell. Il regista, reduce dal precedente L’uomo invisibile del 2020 e dalla carriera al fianco di James Wan, torna nel campo dell’orrore di “vecchio stampo” con questo reboot dell’epocale L’uomo lupo del 1941. Ecco di seguito la recensione di Wolf Man, il film horror con Christopher Abbott e Julia Garner.

Wolf Man, la trama del film di Leigh Whannell

Su sceneggiatura dello stesso regista, assieme a Corbett Tuck, Wolf Man è il nuovo film horror prodotto dalla casa Blumhouse, il primo di 6 che vedono come data di uscita questo 2025. Questo titolo vede come protagonista Blake, al quale viene data conferma ufficiale da parte delle autorità che suo padre scomparso anni prima è deceduto, ereditando così la casa d’infanzia nelle campagne dell’Oregon.

Non vivendo un momento particolarmente felice e stimolante con la moglie Charlotte, Blake decide di passare una vacanza in quella casa assieme alla loro giovane figlia Ginger per cercare di ricucire il rapporto famigliare. Il passato di Blake tornerà però a bussare ferocemente alla porta, con il mostro che si mostrerà all’interno del focolare domestico.

Recensione Wolf Man film horror

Wolf Man, la recensione: come fallire nuovamente il mannaro cinematografico

Noi non moriremo, ci sono io a proteggervi.

Nel 2020, in pieno periodo pandemico, iniziò a circolare una certa “mitologia” da instant cult del sorprendente L’Uomo Invisibile con protagonista Elisabeth Moss. Reboot del capolavoro del 1933 di James Whale, il film di Leigh Whannell riesce a riadattare perfettamente la storia di uno dei Mostri Universal alle problematiche e criticità del nuovo millennio, in particolare la relazioni tossiche.

Un piccolo successo di passaparola (data la circostanza pandemica), che porta la Blumhouse a contare nuovamente sul talento del regista per tirare fuori un nuovo coniglio dal cilindro. Un film da questo punto di vista particolarmente atteso questo Wolf Man, non solo perché a prescindere si tratta di riportare sul grande schermo un altro dei “sacri” Mostri Universal, ma proprio in vista del gran passato del regista, collaboratore storico di James Wan e della stessa Blumhouse Prodactions. Si aggiunge, inoltre, come la casa di produzione sia al momento disperatamente alla ricerca di un nuovo titolo che possa risollevare la qualità dei suoi film, con gli ultimi anni in sala che risulterebbero alquanto dimenticabili.

Dopo L’uomo invisibile e nell’anno di Nosferatu e del Frankenstein di Guillermo Del Toro esce così Wolf Man, che dal cilindro non tira fuori un coniglio ma un lupo spelacchiato, quale metafora di un film che non riesce a convincere. Anche in questo caso si cerca di sfruttare la mitologia del lupo mannaro quale metafora per raccontare altro: se nel precedente film ad essere “invisibile” è la donna vittima di violenza del compagno, in questo caso la trasformazione in bestia tenderebbe ad andare sia sull’istinto primordiale di proteggere i propri figli sia sulla malattia degenerativa.

Tuttavia, si tratta appunto di cercare di raggiungere quelle dinamiche molto affascinanti, senza mai affondare il colpo decisivo e con il tutto che risulterebbe fine a sé stesso se non per una presa di posizione sicuramente discutibile, nel bene o nel male. Per quanto concerne il primo aspetto, Wolf Man viene inaugurato presentando lo stereotipo di mascolinità, col padre autoritario che istruisce il figlio alla caccia. Una risoluzione che sembrerebbe rimanere nel cuore e mente del protagonista anche dopo 30 anni, per una trasformazione in bestia che riguarderebbe di fatto solo il padre della famiglia.

Tale analisi, tuttavia, viene messa completamente da parte a metà visione. Ciò non solo perché il personaggio di Blake di fatto viene “sacrificato” in favore della moglie Charlotte, scontrandosi ed uccidendo anche lo stesso padre, ma anche perché il personaggio di Julia Garner non riesce mai ad avere il suo “momento di gloria”. Viene infatti confessato dal personaggio come lei pensi che il suo rapporto con la figlia sia compromesso, trovandosi successivamente a dover lottare per difenderla.

Questa rivalsa della maternità, con Charlotte che diventerebbe di fatto il vero animale che lotta per salvare i suoi cuccioli, viene completamente schiacciata da dinamiche action ed orrorifiche, non riuscendo mai ad avere quel momento tematicamente d’impatto. La metafora quindi dell’Uomo Lupo, come istinto primordiale insito nell’essere umano, viene completamente schiacciata, presentando solo qualche elemento potenzialmente affascinante ma mai approfondito sufficientemente. Se questo campo d’analisi non riesce a reggere, quello della “malattia” colpisce, sebbene incongruenze e punti critici non manchino.

Nonostante possa non essere l’associazione più immediata, Wolf Man parla di malattia degenerativa e come affrontare il drammatico momento se ad essere malato è un membro della famiglia. Non a caso Whannell punti su una “intelligente” coppia di scrittori, con Blake che perde la parola e la capacità di scrivere quando inizia ad accusare la trasformazione. Una trasformazione che, ingiustificabile per le regole del genere, avviene comunque senza che ci sia un vero atto di contagio, il classico morso o graffio della creatura “infetta”.

Anche per sottolineare nuovamente come la trasformazione colpisca Blake e suo padre, il protagonista inizia così a trasformarsi al primo contatto con il suo genitore e, successivamente, peggiorando all’interno della sua casa. Si porta così ad un discorso di genetica che confermerebbe la metafora sulla “malattia”, giocata su schermo alla Shining in vesti mannare. In tal contesto, ad essere discutibile come accennato in precedenza, è il finale del film, dove il malato Blake richiede di fatto l’eutanasia, con Charlotte costretta a staccare la spina sparandogli al petto (di fatto anche lo stesso Blake uccide il suo stesso padre malato).

In un senso o nell’altro, il finale è portato a far discutere indubbiamente, ma a non convincere è comunque la gestione della metafora nell’intero film. C’è da chiedersi innanzitutto del perché siano stati inseriti allora di tutti i riferimenti alla precedente tematica e alla presentazione dell’altro “malato” che, nell’incipit del film, si era smarrito nel bosco. A questo si aggiunge la volontà del padre di Blake di trovare e uccidere questa creatura per salvare anche la vita del figlio dell’amico, Derek.

A ciò si aggiunge anche il fastidioso buco di trama nell’intero arco dei 30 anni di time-skipping, dei quali non si conosce nulla: come sia arrivato il padre di Blake a trasformarsi, a smarrirsi nel bosco, come il protagonista sia arrivato a San Francisco, come abbia conosciuto Charlotte (potenziando in questo modo la sfera drammatica ed emotiva della famiglia) ecc.

Il tutto viene relegato al “lo dimo” di Boris con il personaggio di Julia Garner che racconta semplicemente come il padre di Blake si sia perso nel bosco non facendo più ritorno. Una serie di inesattezze, mancanze e cadute di stile che non possono che far perdere efficacia ad una sceneggiatura che avrebbe anche del potenziale, ma che non riesce a sfruttarlo come avrebbe potuto.

Wolf Man, la recensione: un horror suggestivo che non riesce a sfoderare gli artigli

Stai indietro!

Al di là della sceneggiatura che perde la sua occasione, anche per quanto riguarda il comparto tecnico e la messa in scena non sono tutte rose e fiori per Wolf Man. Nonostante non siano pochi i momenti di sterile quiete, a convincere sembrerebbe essere la parte dell’orrore. Funzionale la scelta di lasciare la creatura nell’ombra per metà film, esplodendo nel finale con la trasformazione ultimata del protagonista. Una rappresentazione del lupo mannaro tuttavia non memorabile, continuando a registrare una gran fatica nel realizzare film di alto livello che vede protagonisti gli ululati della luna piena.

L’horror di Wolf Man è quindi più suggestivo che spaventoso, mostrando il sangue ed un’oppressione psicologica che riesce a convincere a piccole dosi senza mai però strabiliare. A ben supportare la visione orrorifica è l’efficace lavoro sulla fotografia di Stefan Duscio, che cerca di sfruttare al meglio la patina da chiarore lunare, giocando anche con qualche tocco di calore. Piacevole l’intuizione del doppio binario cromatico, rappresentando anche il punto di vista della creatura, ma che resta sostanzialmente fine a se stessa, un trucco estetico senza una vera valenza narrativa.

Il sonoro diventa in alcuni punti importante, specialmente quando è in atto la trasformazione (affascinante il gioco sonoro con la tarantola e la tensione ricreata), ma con la colonna sonora che tuttavia mantiene sempre una sonorità spiccatamente drammatica, non riuscendo mai a caricare la mano sul lato dell’orrore. Piccole gioie e qualche dolore per quanto riguarda poi il cast di Wolf Man.

Sempre difficile commentare negativamente la prova di una giovane attrice di 10 anni, ma Matilda Firth (almeno il suo personaggio da sceneggiatura) è altamente insopportabile, specialmente nei dialoghi a lei riservati (la lettura del pensiero anche no, soprattutto nel finale). Reduce del Kraven SSU e dalla prova “bestiale” in Povere Creature! di Yorgos Lanthimos, Christopher Abbott riscontra il problema di dover abbandonare il suo personaggio di padre per quello del mannaro, lasciando a metà entrambe pur non sfigurando sulla scena.

A “salvarsi” sembrerebbe essere principalmente la Charlotte di Julia Garner, con la prova attoriale che convince più della scrittura del suo personaggio. In conclusione, Wolf Man continua a registrare la spiacevole tendenza nel cinema contemporaneo di fallire (almeno nella maggior parte dei casi) la figura del lupo mannaro. Nel film di Leigh Whannell la figura diventa metafora di qualcosa di imprecisato per la visione, comunque più vicino ovviamente alla tematica della “malattia”.

Oltre a non saper sfruttare gli affascinanti spunti del soggetto, la sceneggiatura non indovina la costruzione dei personaggi (con le prove attoriali che provano a salvare la situazione), con il film che cede il passo alla visione di action-horror. Da quest’ultimo punto di vista, Wolf Man porta in scena una visione accattivante con diverse idee vincenti, ma che non riesce mai a sfoderare gli artigli.

★ ★ ½

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Vittorio Pigini
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Laureato in Giurisprudenza, diplomato in Amministrazione Finanza e Marketing, ma decisamente un Hobbit mancato. Orgogliosamente nerd e da sempre appassionato al mondo cinematografico, con il catartico piacere per la scrittura. Studioso della Settima Arte da autodidatta, con dedizione e soprattutto passione che mi hanno portato a scrivere di cinema e ad avvicinarmi alla regia.