Recensione film Beetlejuice Beetlejuice di Tim Burton

Beetlejuice Beetlejuice è il flebile e divertito ritorno ad un passato prosciugato

Ad aprire Fuori Concorso l’81a edizione del Festival di Venezia è Beetlejuice Beetlejuice, il 20° film dell’autore di Mars Attacks! e La sposa cadavere. Come intuibile già dal titolo, il nuovo film di Tim Burton è un sequel diretto del cult 1988 con protagonista Michael Keaton, rivedendo gran parte del cast originale oltre l’attore di Birdman e con l’aggiunta di Jenna Ortega. Il visionario regista non riprende solo direttamente la narrazione di Beetlejuice – Spiritello porcello, ma anche la sua estetica ed in gran misura anche le tematiche affrontate nel precedente film, perdendo tuttavia come rovescio della medaglia molto dell’effetto meraviglia.

Beetlejuice Beetlejuice, la trama del film di Tim Burton

Su sceneggiatura di Alfred Gough e Miles Millar, Beetlejuice Beetlejuice è il sequel del film cult del 1988 di Tim Burton, che vede protagonisti ancora una volta Michael Keaton e Winona Ryder. Quest’ultima interpreta nuovamente il personaggio di Lydia Deetz, divenuta una celebrità nel campo del paranormale per la sua speciale abilità di comunicare con i defunti. Sarà proprio un funerale a riunire la dispersa famiglia Deetz, la quale si ritroverà dopo 36 anni nella casa a Winter River.

La ribelle figlia adolescente di Lydia, Astrid, scopre così il modellino della città in soffitta. Il portale tra il mondo dei morti e quello dei vivi sta per essere nuovamente aperto, con Beetlejuice pronto a fare ritorno con la bramosia di ottenere la mano di Lydia, sebbene egli stesso sia questa volta braccato dal suo passato.

Beetlejuice Beetlejuice, la recensione: continuare a vivere dopo la morte

La fossa è stata scossa.

Il visionario genio di Tim Burton, nel corso della sua carriera, ha realizzato alcune opere entrate di prepotenza nell’immaginario collettivo, non solo per la particolare e riconoscibilissima estetica che le tratteggia, ma anche e soprattutto per un proverbiale tatto nel raccontare determinate tematiche legate al cerchio della vita tra reale e paranormale. La filmografia di Burton è così un abbraccio verso e dal mondo dei morti, con quel ponte che lo tiene strettamente in contatto con quello dei vivi che non si sbiadisce mai fino all’oscuramento.

Prendendo in esame proprio questa idea di cinema e di narrazione, il film del 1988 non è solo un cult senza tempo, ma anche uno dei principali esponenti nella filmografia di Burton. Nel 2024, dopo quasi 40 anni, il regista decide con Beetlejuice Beetlejuice di tornare nel mondo di quella sua creatura così dannatamente divertente e folle, per riprendere gran parte di quello che venne seminato a suo tempo, aggiungendo in questo caso anche un discorso metacinematografico che lo riguarda anche direttamente.

Sono molte infatti nel film le strizzate d’occhio che Burton regala a favor di camera, anche infrangendo più o meno direttamente la quarta parete, soffermandosi sul necessario bisogno di continuare a vivere dopo la caduta, anche dopo la morte (artistica). Uscendo dallo schermo ed avendo in mente anche la vita personale del regista, sicuramente singolare il fatto che nel film Beeltejuice Beetlejuice il matrimonio non esista, le coppie vengono spezzate dalla morte e dal tradimento invece di essere legate dall’amore, con ben 2 cerimonie che vengono interrotte sull’altare.

La forza per poter andare avanti, per continuare a vivere, deriva nel film proprio dalla “famiglia”, sebbene questa non debba essere considerata necessariamente quella istituzionale, sociale, ma quella degli affetti più cari e vicini. A vincere e a trionfare nel film è infatti l’amore di una madre verso la propria figlia, con quest’ultima che ritrova la fiducia di amare proprio dopo essere discesa negli Inferi.

Burton riprende così lo scontro generazionale del film del ’88, con genitori assenti e distaccati che porta inevitabilmente ad adolescenti persi ed isolati in sé stessi. Un confronto/scontro generazionale che il regista adotta in questo film anche con riferimento, ancora metacinematografico, al ruolo degli effetti speciali nel cinema, con un ritorno “old style” alla stop-motion, all’artigianalità e all’animazione in una modernità divorata dal digitale (quando questo viene usato nel film, spesso, resta comunque di alto livello) e dal frenetico e tossico uso dei social.

Beetlejuice Beetlejuice film Tim Burton

Beetlejuice Beetlejuice, la recensione: un sussurrato lamento dal passato

Affrontare l’ignoto…vincere le paure…è la cosa più difficile.

Quello di Burton con Beetlejuce Beetlejuice è dunque un ritorno al passato, non tanto come mero esempio nostalgico di fabbricazione del fan-service, ma quanto piuttosto come tentativo di provare a tornare sui propri passi con un occhio a 36 anni di distanza. Non che manchino sicuramente gli omaggi derivanti direttamente dal film del ’88, riprendendo ovviamente anche la stessa cifra stilistica quale assoluto sequel, un putrido calderone fotoscenografico – tra cartoon, espressionismo ed il “gotico al neon” – che ha valso la fortuna di Burton nei decenni successivi.

Ma se si deve parlare di un ritorno del regista sui suoi “primordiali” passi, non si può non spendere 2 parole anche sulla grande colonna sonora architettata al solito da Danny Elfman, tanto nelle composizioni personali – che riecheggiano proprio l’essenza del “fantastico” – quanto la scelta della playlist (trovata geniale e divertente quella del “Soul Train”). In tutto questo non si può fare riferimento a Beetlejuice Beetlejuice come ad un ottimo film o ad un ritorno in grande stile per il regista, anzi, quanto piuttosto ad una visione piacevolmente accogliente che fa abbracciare ottime trovate a non poche cadute di stile, tanto nello sviluppo narrativo quanto nella gestione del cast.

Sotto il primo punto di vista, proprio lo stretto legame tra Beetlejuice Beetlejuice ed il film originale impedisce al titolo 2024 di prendere una propria strada, non presentando così particolari novità né nella sua storia (che di fatto riprende molti stilemi utilizzati nel film dell’88) né soprattutto nella compagine artistica, ricalcando così in pieno la meraviglia del prequel che, oggi, colpisce fino ad un certo punto in termini di stupore (non tanto in un fascino al limite dell’innegabile).

Oltre però ad un finale terrificante (non purtroppo in senso orrorifico/positivo), cosa colpisce particolarmente in profondità la visione di Beetlejuice Beetlejuice è la gestione dei suoi personaggi. Attraverso qualche tempo morto di troppo, alcuni di questi in un ruolo chiave (come ad esempio Dolores o lo stesso Beetlejuice) vengono infatti introdotti nella narrazione per poi sparire ingiustificatamente per troppo tempo dallo schermo, lasciando al centro della visione quasi esclusivamente (ed a tratti anche per ovvia natura tematica) quelli di Lydia e della figlia Astrid.

Tutti gli altri personaggi al di fuori di questi 2, nella sostanza, ricoprirebbero il ruolo di semplici accompagnatori o maschera comica. In questa nauseante giostra è infatti la sottotrama di Dolores quella che colpisce meno: dopo l’affascinante presentazione e l’aver smosso le forze capitanate da un Willem Dafoe (irresistibile), la sua storia risulta in fin dei conti assolutamente inutile ai fini della narrazione, schiacciata dalla venuta di un giovane e diabolico affabulatore che connette più come mezzo che come fine. Venendo così esplicitamente alla prova del cast sullo schermo, oltre ad un Dafoe esilarante nel suo piccolo ruolo che sprigiona “realismo”, ad andare verso il pollice alzato sono soprattutto l’eccentrica Delia di Catherine O’Hara e lo “spiritoso” (quasi) protagonista interpretato da Michael Keaton, che torna a divertirsi e a far divertire come nel primo film.

Parte praticamente perfetta e scritta su misura per Jenna Ortega, con l’attrice di X: a sexy horror story e della serie Mercoledì proprio di Burton che purtroppo fallisce un necessario carico emotivo, senza perdere tuttavia del tutto la convinzione necessaria per il suo ruolo. Oltre alla fastidiosa macchietta comica di Justin Theroux, è stranamente molto sottotono la prova di un’ingessata Winona Ryder (mai ai livelli dell’icona di bellezza Monica Bellucci, zombieficata non solo nel personaggio), la quale non riesce a restituire altre emozioni all’infuori della tenerezza per la sua situazione con ex compagno, con l’attuale (e forse nuovo) marito e con la figlia ribelle.

Beetlejuice Beetlejuice è dunque un ritorno di Burton al cinema che lo ha lanciato, collegandosi in maniera simbiontica con il suo film cult dell’88 e riuscendo a strappare più di qualche risata oltre a qualche idea di grande cinema. Ne fuoriesce tuttavia un prodotto del quale si sentiva poco il bisogno, non riuscendo ad aggiungere reale sostanza al suo prequel la quale anima viene artisticamente prosciugata. Un progetto al quale lo stesso cast, per la prova restituita sullo schermo, non sembrerebbe credere fin dall’inizio.

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Vittorio Pigini
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Laureato in Giurisprudenza, diplomato in Amministrazione Finanza e Marketing, ma decisamente un Hobbit mancato. Orgogliosamente nerd e da sempre appassionato al mondo cinematografico, con il catartico piacere per la scrittura. Studioso della Settima Arte da autodidatta, con dedizione e soprattutto passione che mi hanno portato a scrivere di cinema e ad avvicinarmi alla regia.

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